Abbiamo già visto, in articoli precedenti, come i videogiochi suscitino in noi emozioni capaci di farci sentire presenti nella realtà virtuale e che arrivano anche a generare un profondo coinvolgimento nell’attività, tanto da permettere che i confini della nostra persona finiscano per sfumare in quelli del videogioco. Ognuno di questi aspetti è caratterizzato dalla qualità per eccellenza che distingue i videogiochi da molte altre attività, il “qui e ora” che coinvolge il giocatore momento per momento. Abbiamo già, trattato in articoli precedenti, dell’immedesimazione nell’avatar e della sua personalizzazione in relazione alle preferenze del giocatore e del conseguente aumento di coinvolgimento che questo provoca (effetto Proteus) come della sensazione di presenza nella realtà virtuale da soli o in compagnia di altri (senso di presenza & presenza sociale).
Ma cosa ci resta delle ore spese davanti ad un titolo, quando la console, emettendo l’ultimo BIP della giornata, si spegne? In altre parole, è possibile che il videogioco modifichi il nostro comportamento nella vita quotidiana?
Ovviamente la domanda è esclusivamente a scopo retorico, ma le direzioni in cui la risposta può essere orientata sono molteplici. Oltre alla già citate creatività e fantasia, il cui aumento è riscontrato in diversi studi, esistono molte funzioni più complesse e raffinate che i videogiochi insegnano, migliorano o addestrano ad esportare dall’abituale situazione in cui si osservano. E’ importante sottolineare che si tratta dell’azione del gioco sul giocatore e non del rapporto di influenza reciproca, come nel caso del “qui e ora” di cui sopra. Questo significa che i videogiochi hanno effetti non solo che immergono il giocatore nella realtà virtuale, ma anche effetti che transitano dal videogioco alla mente del giocatore per trovare applicazione nella realtà come strategie nuove o alternative alla risoluzione di problemi quotidiani e non. Secondo Ortiz de Gortari il coinvolgimento che i videogiochi portano al giocatore è strutturabile su tre livelli distinti ma ugualmente interconnessi tra loro e prende il nome di GTP, ovvero Game Transfer Phenomena.
Il primo riguarda il comportamento e la strutturazione di pattern comportamentali specifici e complessi come una determinata sequenza di pulsanti che produce un dato effetto (anche il semplice saltare su una pedana in movimento in qualsiasi gioco Platform); il secondo è relativo alla sfera emotiva e si riflette sul vissuto in prima persona del giocatore e sulla sua esperienza di gioco in termini anche di piacevolezza (semplicemente quanto il gioco è, ad esempio, divertente e appagante); l’ultimo è percettivo ed è relativo all’insieme di segnali sensoriali – virtuali a cui il giocatore è sottoposto nel gioco e si configura come un ampliamento della sfera percettiva quotidiana.
Oltre la letteratura psicologica, avvicinandosi al mondo del gaming, pensiamo ad un titolo come Assassin’s Creed in cui si realizza come i muri siano non solo parte degli edifici (come la logica vorrebbe) ma anche percorsi esplorabili in arrampicata. Orientandosi verso un titolo sparatutto, i passanti diventano velocemente bersagli da abbattere o salvare e la strada dietro casa diventa immediatamente una zona di guerra in cui seguire un determinato percorso.
In Tetris per esempio l’apprendimento che il videogioco porta al giocatore in termini di pianificazione strategica e di efficienza è strabiliante e incredibilmente applicativo in situazioni come fare le valige, metterle in macchina salvaguardando il più spazio possibile, o semplicemente sistemare la spesa. Tutto questo trasportare (dal videogioco alla realtà e viceversa) strategie a prima vista non condivisibili, è possibile grazie all’esperienza che, nell’ambiente reale o virtuale, si fa di una determinata situazione e della sua soluzione. Il GTP è la conferma di quanto l’esperienza virtuale possa efficacemente modificare la percezione delle nostre possibilità.
Ecco un altro motivo per cui tutti dovrebbero avere un joystick per amico.