Quattro giorni fa a Parigi è stato dato atto a qualcosa di orribile, per mano di persone che poco hanno presente il peso della vita. Vuoi per il luogo, vuoi per le circostanze, quelle 132 anime lasciano un segno nero, di paura, nel cuore di tutti gli europei. Riprendersi non sarà facile ed il lento processo di metabolizzazione dell’evento ha già iniziato il suo cammino con discussioni che coinvolgono tutti gli aspetti della vicenda: chi è stato? Come hanno fatto? Cosa c’è dietro? Come agisce l’ISIS, che ha rivendicato questo gesto?
Quando la lente dell’interesse mediatico entra nelle viscere dello Stato Islamico ecco che accade qualcosa: ci si riconosce. O meglio: si riconoscono i mezzi.
Internet, Smartphone, Computer, Wi-Fi sono nella quotidianità dell’agire dell’ISIS, costituiscono il cuore pulsante della propaganda messa in atto da questa organizzazione.
“Hanno preso ciò che è nostro e ce lo hanno rivoltato contro” è una delle frasi che più ho sentito dire in questi giorni e che per certi sensi rispecchia il processo che ha portato queste persone ad avere la padronanza di strumenti “nostri”, ora più “loro” che mai.
Ma qual è la differenza? Due ambiti in cui si palesa principalmente: forma e scopi. La forma ideata dal califfato serve ad affascinare, incuriosire, attrarre (forse non così diversa dai nostri social). Lo scopo è uno solo: indottrinare.
Ma cosa succede quando si applica questa metamorfosi ad un altro prodotto culturale, quasi forte come i Social Network?
Cosa succede quando l’ISIS mette mano ai videogiochi?
Le differenze sopra citate riguardano anche questi artefatti? In questo caso, concentrarsi sui meccanismi della metamorfosi può dare vita a diverse riflessioni.
Oltre che alla diffusione di solo determinate categorie videoludiche (totalità di Sparatutto e First Person Shooter) la modifica apportata dai Games Designers Jihadisti è semplice e si basa su di un processo altrettanto semplice: l’inversione dei ruoli. Cosa vuol dire: i giochi cambiano poco, cambia solo la casacca di chi spara e di chi viene ucciso.
Eclatante il caso di Arma, l’FPS più verosimile in circolazione. Oltre ad essere estremamente realistico questo gioco ha una peculiarità: è possibile programmare ed inserire delle “dlc”, espansioni del gioco che ne modificano alcune parti e componenti. L’ISIS ne ha creata una non autorizzata in cui si possono indossare i panni di un militante ed aiutare il califfato nelle sue conquiste. Il gioco ha spopolato nelle zone controllate dallo Stato Islamico.
Comprendendo la portata del fenomeno, ed ispirandosi al governo americano che già negli anni 70’ utilizzava rudimentali videogames per addestrare i carristi, il Califfato ha iniziato a produrre e diffondere videogiochi marcati ISIS cercando di ottenere un incremento nel reclutamento di nuove leve. Può funzionare? Ahimè la storia ci dice di si: nel 2002 negli Stati Uniti fu diffuso gratuitamente American Army, sviluppato da uno studio di proprietà delle forze armate americane, e nel giro di due anni raggiunse i 3,4 milioni di utenti attivi. Ideato per incrementare l’arruolamento, nel 2004 un terzo dei suoi utenti aveva scaricato dal sito del gioco i documenti necessari al reclutamento (circa 1.100.000 persone). Vediamo quindi che non ci sono differenze sostanziali nell’utilizzo dei videogames se questi sono usati per generare del “male”.
Da questo scenario il mondo dei videoGIOCHI sembra uscirne distrutto e negli ultimi giorni sono state migliaia le dita puntate verso tutto il mondo videoludico: accuse generalizzate, mistificazione e grida di scandalo hanno investito il Gaming come se la colpa fosse del giocare e del gioco e non di chi lo mette lì, lo inventa (facendo passare il messaggio che si vuole o che viene ordinato) e lo diffonde. Videogiocare non è un’attività dannosa ed indottrinatrice se si utilizza nel senso giusto, i giochi che permettono, e quindi indirettamente inneggiano alla violenza verso altre etnie (o che le inseriscono come entità nemica), sono pochi e spesso sono prodotti per esigenze di mercato o, come si evince dall’esempio “American Army, per scopi secondari e, a parere mio, meschini. Non dobbiamo fare dell’erba un fascio e dobbiamo capire che il potenziale dei Videogame è sfruttabile anche, e dovrebbe essere “soprattutto”, per fare del bene.
Ricordate il gioco Arma e le espansioni a cui accennavo prima? La casa produttrice del titolo, la Bohemia Interactive, ogni anno seleziona e premia le espansioni più gradite create dai giocatori. Il prodotto migliore viene rinominato “Make Arma Not War” e gli sviluppatori ricevono un premio in denaro.
Tra i finalisti di quest’anno è spiccato un progetto, tutto italiano, che DEVE essere messo in risalto perché rappresenta l’esempio perfetto di come anche i “giochi di guerra” possono essere portatori di messaggi limpidi, civili, sani.
L’espansione si chiama Mare Nostrum ed inverte le dinamiche belliche in operazioni di salvataggio e soccorso. Il contesto è Linosa, un’isola al centro del mediterraneo, vicino a Lampedusa, e lo scopo è quello di proteggere i profughi e salvarli. Non viene premiata l’azione letale ma quella mirata a salvaguardare la vita.
Il successo ottenuto da questa espansione dovrebbe essere pioniere di un cambio di tendenza da parte di alcune tipologie di videogiochi e deve farci capire due cose: innanzitutto è possibile intrattenere le persone dando loro obbiettivi positivi anche in contesti estremi o di emergenza, inoltre, e di maggiore importanza, vi è l’evidenza che i videogiochi possono essere usati per coltivare le coscienze, guidarle, riempirle di valori positivi. Bisogna slegare i prodotti videoludici dal tentativo dei poteri forti di utilizzarli per piegare e modificare la volontà e l’immaginario delle persone; bisogna capire che i videogiochi possono essere una palestra di vita, non di morte.