Alveari industriali dove dipendenti di nome ma schiavi di fatto sono al tempo stesso forza lavoro e materia prima per aguzzini incapaci di lavoro manuale o di camminare con le proprie gambe: potrebbe benissimo essere l’ambientazione di un romanzo distopico, ma è “solo” la premessa di una serie videoludica di recente tornata alla ribalta con i remake dei suoi primi apprezzatissimi capitoli. Per chi non la conoscesse, benvenuti ad Oddworld.
È un mondo, quello che vede l’ex lava pavimenti Abe diventare improbabile eroe, che si pone subito come teatro per estreme dinamiche di potere. La specie dominante, i tirannici capitalisti Glukkon, è tanto machiavellica e portata al comando quanto di fatto inerme: i loro corpi sormontati da enormi scatole craniche sono infatti privi di arti prensili, costringendoli dunque a ricorrere a tecnologici comandi vocali. L’alternativa è affidarsi ai servizievoli scagnozzi Slig, una razza octopoide amante delle armi da fuoco e delle imprecazioni, costretta però a strisciare quando sprovvista di gambe meccaniche.
In questa logica per certi versi fisiognomica ecco dunque i Mudokon, sottomessi e sfruttati in quanto dotati di quattro arti funzionanti, subire restrizioni delle loro facoltà quando non necessarie per il lavoro: movimento limitato da campi minati, isolamento reciproco dietro palpebre suturate, distacco dal loro ambiente naturale in vuoi stabilimenti progettati a uso e consumo delle specie dominanti. Sono gettati in uno stato che la psicologia definirebbe di impotenza appresa, talmente abituati a non avere alcun potere da rassegnarsi al loro destino di tuttofare prima e carne da macello poi.
La riscossa di Abe e dei suoi simili inizia dalla comunicazione, elemento alla base dell’originale sistema di gioco, che li vedrà coalizzarsi in modo sempre più complesso per sfuggire alla prigionia. Mentre i padroni Glukkon comandano a suon di “Fallo!” o “Uccidetelo!” e i loro esecutori Slig si limitano a gesti camerateschi (come ridere a comando quando un Glukkon lo fa) o a interazioni strumentali, nelle interazioni con il protagonista i suoi simili possono arrabbiarsi e deprimersi fino al suicidio ma anche collaborare o chiedere scusa. Interessante come un ruolo fondamentale sia svolto dal canto: ultima vestigia delle tradizioni tribali Mudokon e represso a suon di scariche elettriche per il suo potere di controllo mentale, sarà strumento di ribaltamento dei ruoli fra oppressi e oppressori. Senza le tecnologie protesiche dalle quali sono ormai dipendenti i “padroni” si riveleranno creature patetiche e inermi.
Un ritorno alla (propria) natura quindi da parte del protagonista, che nulla in realtà fa se non riscoprire le proprie risorse. Il successivo viaggio di Abe nelle necropoli della sua gente ha infatti il sapore di un rito iniziatico: confrontarsi con gli insidiosi paramiti e la ferocia degli scrab, animali totemici macellati fino alla soglia dell’estinzione, è di nuovo un azzardo mortale ma anche una dimostrazione delle proprie abilità di fronte agli avi. È da questo legame con legame con le origini che verrà il potere per mettere in atto, in situazioni eccezionali, la più clamorosa inversione dei ruoli. Liberato un numero sufficiente di Mudokon sarà possibile far manifestare per qualche istante tramite il corpo di Abe il leggendario pitecantopo Shrykull, dalle capacità distruttive praticamente illimitate. Vedere il nostro goffo eroe dopo ore e ore di nascondigli e sotterfugi annichilire qualsiasi cosa gli si opponga è una esperienza esaltante ma a tratti spaventosa: letteralmente non lo riconosciamo più.
E sarà appunto solo una momentanea e miracolosa grazia divina: il finale vedrà l’ex addetto alle pulizie ora catturato come criminale dopo aver fatto letteralmente esplodere il cervello a una serie di pezzi grossi della società Glukkon, salvarsi grazie ai suoi simili da lui liberati. Una storia quindi di azione divergente che erode catene di impotenza, a questo meccanismo così necessario anche in contesti reali deve a mio avviso il suo essere decisamente perturbante: dietro le bizzarrie e l’alieno ci presenta qualcosa di fin troppo reale.