Hikikomori e videogiochi, una società di avatar

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I videogiochi sono sempre stati considerati da molte associazioni e gruppi di persone come passatempi praticati da individui con tendenza all’isolamento e asociali (anche agorafobiche e con disturbi sociali, affettivi e sessuali).

Tale visione delle cose non è tutt’ora mutata del tutto, seppur ormai è stato sdoganato in larga parte la rappresentazione negativa che veniva dipinta sui videogiochi in passato, non si può affermare che lo stereotipo non persista più.

Un numero sempre più crescente di persone si rifugia nei mondi artificiosi e videoludici, alcuni distaccandosi completamente dalla realtà e arrivando a comunicare solamente tramite l’ausilio di un “media”, rifiutando la compagnia fisica degli altri e accrescendo il timore o lo sconforto che lo spingono a rinunciare a impegnarsi nei rapporti dal vivo e a stringere o mantenere relazioni sociali.

Tale fenomeno di isolamento da parte di alcuni individui dalla società e il loro rispettivo ritiro in modi virtuali, venne registrato su larga scala in Giappone a metà degli anni ottanta e i dati registrati sin da allora hanno continuato a crescere.

La parola giapponese “Hikikomori” si compone dalle parole hiku “tirare” e komoru “ritirarsi”, letteralmente quindi si traduce in stare in disparte o isolarsi; tale fenomeno o meglio piaga sociale è stato aspramente criticato dal popolo giapponese, il quale però non ha saputo venire in contro ai reali problemi di fondo che stanno alla base di esso (ossia la cultura dell’eccessiva competitività, del consumismo necessario e sfrenato, della ricerca dell’affermazione lavorativa e perciò sociale a discapito di quella familiare e affettiva, ecc…).

I soggetti definiti hikikomori, sono individui che si allontanano dalla società in cui vivono considerandola avversa e inospitale, percependosi loro stessi inadatti a soddisfare i requisiti richiestigli per avere successi e finendo quindi per deludere le aspettative della famiglia. Essi impiegano il loro tempo a oziare e mangiare, leggere e a seguire programmi di vario intrattenimento, oltre che a giocare a videogames.

L’accostamento videogiochi-“hikikomori” è stato travisato, il giocare a videogames e l’isolamento sociale sono un’associazione ambivalente che da molti è stata però intesa come biunivoca, di causa-effetto, affermando che la colpa di tutto sia da indirizzare verso i videogiochi, non accorgendosi che non sono i videogiochi a rendere asociali.

Purtroppo come capita spesso la società accosta involontariamente determinati oggetti, costumi e prodotti a tratti e comportamenti di determinate persone o ad interi gruppi e sub-culture, finendoli per etichettarli; esempio classico è quello dei tatuaggi accostati in passato a criminali o a società malavitose (se non si trattava di marinai o militari) e quindi a persone dal carattere irascibile e/o pericolose.

Oggi molte cose sono cambiate e si è finalmente in grado di discernere meglio le due cose, seppur il fenomeno degli hikikomori si è andato a diffondere anche in altri stati, con usi e costumi differenti, i problemi di fondo sono stati riconosciuti e non vengono più così ampiamente ignorati, restituendo maggior dignità al mondo dei videogiochi e avvicinandosi di un passo ai problemi che affliggono una parte della società.

Sono sorte molte associazioni spinte dal desiderio di combattere tale tragedia, nel corso degli anni sono stati registrati numerosi documentari e sono state condotte molte interviste, sono stati realizzati diversi prodotti che trattano tale argomento (libri, cartoni animati, film ecc…) e i videogiochi sono stati finalmente scagionati da tutte le accuse che gli furono rivolte negli anni.

I videogiochi in pratica divengono quindi una valvola non solo di sfogo o mezzi di interazione sociale, ma anche strumenti attraverso cui il soggetto percepisce un’autorealizzazione personale; i soggetti si identificano totalmente nei loro avatar virtuali, cominciano a provare gratificazione e conforto solo tramite i successi che compiono con i personaggi fittizi che manovrano, finendo persino ad autoconvincersi dell’esistenza di tali realtà e delle imprese compiute in esse da loro.

Il fenomeno degli hikikomori o dei neet (acronimo di “not (engaged) in education, employment or training”, ossia nullafacenti), sono oramai conosciuti a gran parte del pubblico e anche in Italia sono sorte diverse associazioni, piattaforme, canali e forum che seguono e cercano di aiutare tali persone.

Gli hikikomori si sono rivelati essere, per paradosso, una società purtroppo florida, composta più da avatar che da persone, tutte unite da un male invisibile e latente, che può colpire chiunque e che nasce dallo sconforto e dalle troppe pressioni di una società competitiva, ma anche dall’incapacità oramai di molte persone di saper prendere coraggio e affrontare le proprie paure, timori e incertezze, mascherando il tutto dietro ad accuse infamanti a terzi (come il lavoro o la scuola) e caccia alle streghe verso hobby e passioni.

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