Parlando di videogiochi molto frequenti sono i riferimenti al loro uso per potenziare specifiche abilità o veicolare contenuti, poco è stato invece scritto su come è perché si possa farli entrare nello studio dello psicoterapeuta. E’ importante ricordare quanto si tratti di un ambito diverso da quello formativo o persuasivo: pur nella grande varietà di approcci, tecniche e modelli teorici possiamo definire la psicoterapia come una relazione fra una persona (il cliente/paziente) e un professionista formato volta a intervenire su una situazione di disagio interiore e/o relazionale non necessariamente organizzato in una psicopatologia.
La categoria che maggiormente fa uso del gioco in terapia sono i bambini: rappresenta per loro un complemento dell’espressione verbale ma anche precursore e supporto alle facoltà mentali che stanno sviluppando. Bambole, pupazzi e giochi da tavolo sono dunque uno strumento comune per i terapeuti che operano in quest’area, non in quanto terapeutico in senso stretto, ma come modalità per instaurare una relazione e di rendere manifeste tematiche intrapsichiche.
La letteratura in quest’ambito conta per lo più di casi singoli o sperimentazioni su piccoli campioni, la cautela riguardo questi risultati è dunque d’obbligo. Dalla revisione di Ceranoglu (2010) emergono però alcuni spunti interessanti.
Il videogioco sembra essere per prima cosa un mezzo potenziale per avvicinare giovani pazienti, anche con problematiche comportamentali, alla terapia. Il videogioco permette di mantenere un’interazione, ma anche di attivare vissuti emotivi nel momento presente. Porrei l’attenzione sul suo essere un’attività divertente e non associata alle tanto temute procedure diagnostiche da “strizzacervelli”, vicina alla vita quotidiana delle nuove generazioni.
Da non sottovalutare come offra, almeno in questo periodo storico, di ribaltare le disparità di competenze fra terapeuta e bambino. A differenza dei giochi tradizionali il piccolo paziente può trovarsi nel ruolo di “esperto”, con vari scenari possibili: dal sentirsi orgogliosi di mostrare le proprie capacità al non voler far entrare l’adulto nel “giardino segreto” videoludico.
Il videogioco fornisce poi una struttura all’interazione: eccetto situazioni particolari è impossibile “barare” dato che le possibilità sono limitate artificialmente: si può quindi osservare e discutere come il bambino reagisce alla frustrazione e alle sconfitte, come si approccia ai problemi e sviluppa soluzioni.
Il computer o la console con la loro interattività possono diventare una sorta di terzo nella stanza con cui confrontarsi. Il piccolo paziente può dunque escludere il terapeuta dalla relazione fra se e il gioco relegandolo a un ruolo di osservatore, oppure coinvolgerlo nell’attività commentando quanto sta facendo o proponendo di alternarsi. Menzione particolare meritano le possibilità del multiplayer: si può sfidare e battere l’adulto ma anche collaborare per superare le sfide che il gioco come “terzo” pone.
Interessante anche come la tipologia di titoli scelti e le modalità d’uso sembrano riflettere le problematiche che hanno portato alla terapia proprio come emergono nel gioco classico: bambini con problemi di regolazione emotiva ad esempio “tendevano a giocare al videogioco aggressivamente, ripetendo tentativi disfunzionali senza alcuno sviluppo significativo della trama”, in una triste corrispondenza con le loro difficoltà nel mondo reale.
Suggestive infine le osservazioni sulla posizione fianco a fianco davanti allo stesso schermo: pur precludendo l’intimità del contatto diretto con lo sguardo può permettere al bambino di correre rischi, come fare un’osservazione riguardo un’esperienza emotivamente difficile: impossibile non pensare al tradizionale lettino dell’analista, dove il paziente può lasciarsi andare alle libere associazioni proprio perchè esente dallo sguardo potenzialmente giudicante dell’analista.
Penso non ci possa essere conclusione più audace di quella dello stesso Ceranoglu, quando arriva ad affermare che “familiarità con i contenuti del videogioco e le sue dinamiche dovrebbero essere inclusi nella formazione dei clinici che lavorano con i bambini”