Ultimamente sul web sembra esserci una battaglia su tutti i fronti contro le microtransazioni e chi le propone. Notizie di poche settimane fa vedevano nella bufera EA per Battlefront 2, Warner Bros. Per Shadow of War, Microsoft per Forza Motorsport 7. In tutti questi giochi (e moltissimi altri) si può progredire semplicemente giocando, però c’è anche un’altra possibilità: pagare valuta sonante per comprare oggetti o vantaggi nel gioco, solitamente sotto forma di loot box con contenuto casuale. I prezzi per il singolo oggetto o loot box non sono mai cifre astronomiche, da qui il termine microtransazioni. Nonostante tutte le lamentele da parte dei giocatori che, avendo pagato 70 euro o più per un titolo, non vogliono rimanere svantaggiati di fronte a chi paga la sua scalata alla vetta, gli sviluppatori continuano a inserire quest’opzione nei loro giochi. Il fatto è che funzionano: dietro al gruppo di giocatori che si lamenta chi non si fa sentire è la massa di persone che invece spende qualche dollaro per trovare quell’elusiva skin festiva per Mercy, o una Shark Card in GTA Online per potersi permettere uno dei nuovi veicoli usciti. Difatti, proprio parlando di Grand Theft Auto V, Rockstar guadagna in un anno 700 milioni di dollari in vendite di Shark Card per GTA Online, gioco uscito nel 2013 e ancora molto popolato: i guadagni superano quelli delle vendite del gioco stesso e probabilmente a causa di ciò non sono mai stati rilasciati i promessi DLC single player che avrebbero dovuto ampliare la storia di GTA V.
Questo articolo non nasce con l’intento di demonizzare chi usa questi sistemi, ma nemmeno per difenderli a spada tratta. Quello che è interessante capire è come mai questo sistema funziona così bene, ed è bene capire da dove nasce. Il modello delle microtransazioni non è nato ieri, e il suo antenato va cercato nei cabinati arcade: riassumendo per chi non ha vissuto l’epoca d’oro o per chi è poco pratico di storia dei videogiochi, gli arcade sono dei giochi a gettoni. Comuni da vedere in sale giochi o bar negli anni ‘80/’90, oggi sono un po’ più rari da vedere ma ancora presenti. Facciamo un esempio pratico: se volevo giocare a Metal Slug dovevo inserire un gettone o 500 lire, per avviare il gioco e ottenere 3 vite. Esaurite queste, il gioco dava alcuni secondi per inserire altri gettoni e poter proseguire la partita, pena il game over e la perdita dei progressi. Balziamo in avanti sopra agli MMO dei primi anni 2000 e torniamo a noi, per cercare di capire quali meccanismi ci portino ad armarci di carta di credito e spendere qualche Euro per oggetti digitali.
Un primo modo in cui si perde il contatto col valore effettivo del denaro speso all’interno di un gioco si ha grazie al “cambio” tra una valuta reale, come gli Euro, a delle monete d’oro o crediti di vario tipo. Gli ormai defunti Microsoft Points erano la valuta in uso sullo store di Xbox fino al 2013 e permettevano di comprare contenuti scaricabili in maniera indolore, in quanto un acquisto poteva costare per esempio 400 MP. E cosa sono 400 MP? Mentalmente non hanno più lo stesso valore e quindi risulta più “facile” spenderli; inoltre il cambio volutamente non è dei più semplici, in quanto 1$ equivaleva a 80 MP. Come studiato da Lowenstein e Prelec (1998), le persone hanno un’avversione a spendere; quello che questa conversione è in grado di fare è di diminuire il “dolore” associato alla spesa separando il costo reale dell’oggetto che si va a comprare dalla valuta comunemente utilizzata. Questo effetto è riscontrabile nella realtà anche cambiando i nostri soldi in una valuta straniera al momento di viaggiare all’estero: non svolgiamo un compito di conversione mentale ogni volta che ci troviamo a fare un acquisto durante un viaggio e quindi non ci rendiamo completamente conto della spesa sostenuta.
Altro metodo è quello di porre un limite di vite/tentativi al giocatore, comune ai giochi in formula Free to Play (d’ora in poi F2P) e soprattutto a quelli per smartphone. Si hanno a disposizione un numero limitato di partite e una volta esaurite si può aspettare che un (lungo) countdown riempia di nuovo i nostri tentativi… oppure si può pagare 99 cent per averne altre subito. Quelle partite che abbiamo appena consumato erano quelle che servivano a farci entrare per bene nel gioco, e quei 99 cent sono ora una spesa minima per il piacere di poter giocare altri 20 min senza aspettare 24 ore per la prossima sessione. Altri giochi offrono dei vantaggi, come armi o armature più potenti, che possono essere guadagnate dopo lunghe sessioni di gioco oppure subito, pagando. Il rischio di rimanere svantaggiato in un contesto multiplayer può portare ad accettare la spesa e comprare qualche equipaggiamento raro o leggendario per avere un margine rispetto agli altri giocatori. Questi due sistemi pongono le loro basi nell’endowment effect (Thaler) e in una delle sue spiegazioni, l’avversione alla perdita (Khanemann, Knetsch, Thaler). In cosa consiste tutto ciò? L’endowment effect descrive l’asimmetria che esiste nella mente umana tra il valore di un oggetto posseduto rispetto a uno che non si possiede, mentre l’avversione alla perdita è la tendenza a preferire di evitare una perdita rispetto ad ottenere un possibile equivalente guadagno. Come si applicano ai videogiochi? Un’idea è che il gioco, sia F2P che pagato, dal momento in cui iniziamo a investirci del tempo diventa nostro affettivamente e con l’andare del tempo il valore che diamo al suddetto gioco aumenta, permettendoci di spendere soldi giustificandoli con l’impegno e il tempo già profusi nel videogioco. Un’altra è che, preferendo evitare la perdita, si spendano soldi in oggetti che crediamo ci possano garantire di continuare a vincere le partite, come una spada che dia un significativo vantaggio in uno scontro contro altri giocatori.
Cambiando metodi, c’è la possibilità di incappare in microtransazioni anche all’interno del client di giochi Steam, sotto forma di card. Comprando un gioco e completandolo è possibile sbloccare su Steam delle carte, che andranno a testimoniare il tempo passato sul titolo. Ma in questo modo è possibile sbloccarne solo una metà, mentre le restanti vanno scambiate con altri giocatori oppure comprate su un mercato di Steam. Quello che può darci la collezione completa è un badge da esporre sul profilo, icone per la chat o sfondi. Inoltre, completare collezioni aumenta il livello del nostro account, come se fosse un gioco di ruolo. Un modo in cui questo sistema può “acchiapparci” è per la naturale spinta a completare un compito iniziato, che lo può rendere molto saliente e può spingere alcune persone a voler completare la collezione; soprattutto in un caso come questo, in cui non si inizia mai da 0 ma per forza di cose ci vengono regalate alcune carte per dare il via. Un po’ come quando fuori da scuola c’era chi dava gratuitamente gli album di figurine e 1 o 2 pacchetti: se ci fosse stato solamente l’album vuoto l’impulso a riempirlo non sarebbe stato tale alla spinta data da quelle figurine gratis.
Un ultimo metodo, quello più di tendenza degli ultimi tempi, è la loot box: una specie di lotteria, una scatola del mistero acquistabile -di nuovo- tramite valuta di gioco guadagnata dopo le partite o subito, sempre pagando. Ricorda un po’ le bustine delle carte di Pokémon, perché quello che contengono queste scatole è casuale, con la promessa che almeno uno degli oggetti sia di qualità rara o superiore. Così possiamo trovarci ad aprire una di queste scatole e trovarci dentro uno scintillante oggetto leggendario o una skin unica, per poi aprirne altre 4 che contengono oggetti di livello ben inferiore. E se nella prossima si celasse proprio quell’agognata armatura? Quello che succede è che venendo esposti a questo sistema con alcuni assaggi gratuiti salendo di livello, ci ritroviamo a voler provare ancora il brivido di aprire un forziere misterioso e di sentire il suono che preannuncia un oggetto unico. Tutto questo può spingere alcuni a spendere decine (o più) di euro in tentativi. In alcuni casi, chi si lascia travolgere da questi sistemi può trovarsi a spendere all’interno del gioco più soldi di quanti non ne abbia già spesi per comprare il gioco stesso, com’è successo di recente: c’è chi ha speso 15.000$ in loot box in Mass Effect Andromeda. Per questo motivo c’è chi vede questo sistema di loot box come un gioco d’azzardo: L’ESRB, l’organo di rating dei videogiochi americano, non ritiene che lo sia. D’altro canto, il governo inglese sta tenendo d’occhio la situazione per potenziali sviluppi: il dibattito è ancora lontano dalla sua conclusione. Ovviamente queste non sono regole che si applicano allo stesso modo o con la stessa intensità a tutte le persone: certamente molti di quelli che leggono queste righe non hanno mai speso nemmeno un centesimo in microtransazioni, come il sottoscritto per esempio. Spero però di aver dato qualche strumento per capire i processi della nostra mente, indifferentemente da ciò che si pensi delle microtransazioni nei videogiochi.