Bandersnatch: una stanza, uno schermo, infinite alternative

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“Mi dispiace amico, decisione sbagliata”.

Come posso descrivere il senso di vertigine che ho provato sentendo queste parole?

“Ho sbagliato”, “fra le scelte possibili ho optato proprio per la peggiore”, “eppure mi sembrava la cosa giusta da fare”, questi i pensieri che mi vorticavano nella testa.

Bandersnatch è il primo episodio interattivo della serie Black Mirror, nonché primo esponente di quella che, in futuro, potrebbe diventare una vera e propria categoria di intrattenimento, caratterizzata da un rapporto interattivo con lo spettatore.

Ci vengono concesse due scelte per esercitare la nostra influenza sul racconto, nulla di più. Due possibilità, due strade che si dividono generando nuove e molteplici alternative, in numero esponenzialmente più alto. Il concept di Bandersnatch è il risultato di una mescolanza tra un’esperienza cinematografica, un’avventura grafica ed un libro-game, ispirato al contesto creativo degli anni ’80.

La trama ruota attorno alle vicende di Stefan, un programmatore diciannovenne innamorato di Bandersnatch, il libro-game che cerca ossessivamente di riprodurre, traducendo le parole in pixel, mantenendo la libertà di scelta che hanno determinato il successo del libro.

 

Il risultato è un thriller psicologico in cui lo spettatore viene scaraventato, costretto ad abbandonare il suo ruolo di passiva partecipazione. Netflix gli concede una decina di secondi per compiere le scelte più disparate, indipendentemente dalla loro complessità, dalla scelta della pietanza principale per la colazione a scelte di vita o di morte. A partire da ognuna di queste si diramano scenari alternativi e conseguenze visibili non solo in occasione delle scelte successive, ma anche all’interno di dialoghi di scene già vissute. La diretta conseguenza di ciò, è che la durata dell’esperienza interattiva può variare dai quaranta minuti al paio d’ore. La struttura del film, infatti, non è lineare, ma si riavvolge su sé stessa, permettendoci di visionare le conseguenze delle nostre scelte e gli scenari alternativi.

 

Abbiamo già visto queste dinamiche, vero?

Il mondo videoludico si è gradualmente popolato di videogiochi a scelta multipla: Heavy Rain, Life is Strange, Until Dawn, Detroit: Become Human, tutti elogiati per aver creato un’esperienza di gioco altamente empatica, immersiva ed intensa, grazie al senso di responsabilità che la possibilità di scelta richiama (per saperne di più rispetto ai benefici dei videogiochi a scelta multipla cliccate qui).

Come in questi titoli, anche in Bandersnatch le componenti dialogiche danno vita ad un universo narrativo che oltrepassa i confini dello schermo, responsabilizzando lo spettatore. Tale risultato è ottenuto alternando espedienti che coinvolgono il pubblico (come l’espressione di Stefan “Like I’m not in control”, che pare una vera e propria richiesta di aiuto) e, al contrario, che li dissociano. Quello in Bandersnatch, infatti, non è un vero e proprio libero arbitrio. La sensazione che gli sforzi dello spettatore siano indirizzati verso percorsi prestabiliti dai quali è impossibile deviare è infatti sempre presente, nonostante il numero altissimo di combinazioni possibili. Quindi, il destino e l’impossibilità di intervenire su di esso è un pensiero ricorrente nel film, sia nella mente di Stefan che dello spettatore, assieme all’incapacità di poter elaborare e gestire la numerosità dei possibili percorsi che si possono intraprendere nella vita.

 

Anche in questo caso, un tema già sentito dai videogiocatori. D’altronde, le critiche principali ai titoli sopracitati è sempre stata proprio la sensazione di scarso potere decisionale sul destino del protagonista.

Un ultimo legame con il mondo videoludico è dato dal fatto che Bandersnatch stesso è ispirato alla storia di un videogioco dal titolo omonimo, sviluppato nel 1984, ma mai rilasciato. Prodotto legato all’Imagine Software, una delle case di sviluppo più ambiziose e rivoluzionarie dei primi anni ’80, rinomata per la minuziosa cura con cui realizzava confezioni e campagne pubblicitarie e altrettanto famosa per il suo rapido declino. La sua produzione si basava sui cosiddetti “Megagames”, videogiochi realizzati per ZX Spectrum e VIC-20, e pensati per superare i limiti hardware relativi allo sviluppo dei videogiochi dell’epoca, motivo per cui questi prodotti venivano venduti con un accessorio in grado di potenziare i computer (e motivo per cui il loro prezzo era ben superiore allo standard del tempo, 30 sterline, contro 7,20 dei giochi tradizionali). Due, in particolare, erano i giochi di spicco: Bandersnatch e Psyclapse che, tuttavia, non videro mai la luce a causa del fallimento dell’azienda.

 

Emblematico, rispetto al film di Black Mirror, è quanto riportato in una delle pubblicità dell’epoca: “…Quando questi maghi del computer, Ian Weatherburn, Milke Glover, John Gibson e Eugene Ewans, vengono segregati per settimane, tutto può succedere, manterranno la loro sanità mentale e, soprattutto, sarai in grado di controllare la tua pazienza?”. Per coloro che hanno già visto Bandersnatch il collegamento con Stefan è immediato.

 

In definitiva, questo nuovo capolavoro targato Black Mirror ha tutti gli elementi che hanno portato al successo della serie: un forte focus psicologico e l’immancabile tecnologia, che da elemento centrale della trama ne diventa la struttura stessa, consentendo allo spettatore di vivere un’esperienza interattiva. Un’idea molto azzardata se pensiamo al concept che sta alla base della serie.

Ma il ruolo della tecnologia non è l’unico elemento ad essere cambiato. Non ci troviamo più in un futuro distopico, ma nemmeno negli anni ’80 (o almeno non totalmente). Ci troviamo in una sorta di limbo, in cui le due realtà si toccano e si intersecano: Stefan avverte la nostra presenza, cerca di comprenderla, la combatte… mentre noi ci insinuiamo nella sua storia, interveniamo, modifichiamo il corso degli eventi.

 

Assolutamente da vedere!

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