La psicologia dei nuovi media emerge come sempre più rilevante anche in ambiti diversi dalla tradizionale educazione all’uso. Gli stessi processi psichici vengono infatti influenzati ed espressi in modalità legate alle tecnologie sempre più diffuse.
Uno di questi è il lutto, quel processo universale di elaborazione e accettazione relativo alla perdita di una persona cara. L’essere umano infatti, dipendendo per la sua sopravvivenza dalla relazione con gli altri, manifesta una serie di risposte alla separazione volte a recuperare il contatto perduto. Quando però questo è impossibile si attiva un processo duale: da un lato le naturali reazioni alla perdita ( il negarla, cercare la persona come fosse ancora viva, i vissuti di tristezza) dall’altro il riorientamento (adattarsi e ridefinirsi rispetto a un mondo esterno ma anche interno inevitabilmente cambiato). Il punto d’arrivo ideale sarebbe una riscoperta di senso, con un cambiamento nell’attenzione e nella risposta emozionale.
Nelle società tradizionali il processo del lutto era supportato dalla partecipazione di tutta la comunità. La vita moderna, dove mancano i piccoli numeri e i legami materiali che tenevano uniti la tribù e il villaggio, ha portato invece il lutto in una sfera più personale e privata.
Ma cosa succede quando le nuove tecnologie, così spesso “sociali” e “personalizzabili” entrano in scena, sia per chi non c’è più che per chi resta?
Il primo fenomeno, se vogliamo più concreto è quello dei lasciti tecnologici. Se la nonna poteva lasciare vecchi album di foto, o al massimo un diario, l’umanità contemporanea produce e conserva una quantità enorme di dati, sarà quindi frequente in futuro dover gestire supporti di memoria appartenuti al defunto. Potrebbero diventare una fonte preziosa di ricordi una finestra su quello che la persona apprezzava, ma non è detto che queste scoperte saranno sempre gradevoli…che ne sarà della nostra immagine?
Meglio scegliere prima allora, magari rivolgendosi a una delle ditte che offrono lapidi munite di codice qr collegato ad una pagina web interattiva, che danno notevoli possibilità di espressione post mortem. I cimiteri quindi potrebbero diventare sempre più simili ai feed dei social media.
Alcuni di questi supporti sono ormai delle protesi del sé, talmente parte di noi da rendere impensabile separarsene anche da morti: basti pensare a chi chiede di essere sepolto con il cellulare, proprio come i faraoni egizi si portavano statuette di servitori per l’aldilà.
Decisamente più complessa è la questione degli “artefatti digitali” che ci lasciamo dietro.
Mettiamo ad esempio le nostre password, come nel caso estremo del fondatore della piattaforma di scambio criptovalute QuadrigaCX, morto senza rivelare prima come accedere alle decine di milioni di dollari degli investitori. Ma anche esperienze più vicine a tutti noi: potremo dare in eredità le nostre librerie di giochi ed ebook? Vorremmo che un amico cancellasse la nostra cronologia?
Il culmine di queste nostre tracce sono gli account dei social network, sorta di sé digitale che permane dopo la nostra morte. Questi vanno spesso a dare sostanza ad una rappresentazione psichica del defunto, con il quale si può comunicare seppur “a senso unico” con modalità che compaiono anche del lutto “analogico”. Così come si “parla” almeno nel pensiero a chi abbiamo perso, possiamo scrivere sulla sua bacheca o commentare vecchie fotografie.
Si tratta di quei “legami continuativi” molto studiati nella letteratura sul tema. Vi è però una distinzione importante: perchè questi si dimostrino una risorsa, devono implicare la consapevolezza che la persona defunta continua ad esistere solamente in forma di simbolica, senza che essa interferisca pesantemente con il reale. Ci sono però situazioni nelle quali viene mantenuto uno stato logicamente contraddittorio, in cui si agisce esattamente come se la persona fossa ancora viva, ignorando le evidenze
fattuali. La mancanza diventa dunque perenne, senza possibilità di elaborare la perdita e di approdare a un cambio di prospettiva. Esempi comuni (Field, 2006) sono il mantenimento dei beni del defunto come se potesse eventualmente tornare o l’identificazione improvvisa e assoluta con caratteristiche dell’oggetto perduto. In questo senso possiamo leggere alcuni casi di genitori che si sostituiscono ai figli perduti nei loro profili social continuando a comunicare in loro vece. Non stupiscono quindi i vissuti di inquietudine che alcuni riferiscono rispetto a queste “permanenze” digitali. Il defunto rimane come una sorta di fantasma, congelato e intrappolato in un mondo virtuale per essere rievocato in contatti avviene non del tutto volontari, come nella funzione “accadde oggi” di Facebook.
Questo ci porta all’uso che viene fatto degli spazi virtuali che la persona ha abitato, che sembrano una occasione per recuperare quel’aspetto comunitario del lutto, ma non senza contrasti. I profili social agli anniversari della morte sono uno spazio di commemorazione collettiva, ma aprono anche a manifestazioni sgradite come il “bandwagon mourning“, che vede persone relativamente estraneee al defunto partecipare in modo esibito al dolore e millantare un presunto legame. Luoghi virtuali come i mondi degli MMORPG, possono essere intessuti di relazioni molto forti e di riti che uniscono intere gilde nel commemorare giocatori (realmente) morti…a scontrandosi a volte con comportamenti quanto meno discutibili come l’ormai celebre “funeral raid“.
Le prospettive future suggeriscono un uso ancora maggiore degli artefatti digitali. Il termine “Grief Bot” già identifica programmi che puntano ad replicare l’interazione con persone dopo la morte. Uno fra tutti è il progetto di James Vhlaos, articolista per Wired, di fronte alla diangosi di cancro terminale del padre ha raccolto quante più informazioni possibili sulla sua vita puntando realizzare un “dadbot” in grado per quando possibile di replicarlo. Ben più ambizioso è Hossein Rahnama, ricercatore del MIT Media Lab e della Ryerson University di Toronto punta a trasformare i dati che produciamo ogni giorno in copie digitali del nostro sè in grado di riprodurre mediante algoritmi le nostre competenze e modalità relazionali. E’ legittimo chiedersi se e come ci abitueremo a queste forme di permanenza: riusciremo davvero a “lasciar andare” chi cerchiamo di conservare con ogni mezzo?