Non ti nascondere! Lo so che anche tu, come me e come tutti i possessori di uno smartphone o utenti di una chat usi le emoji all’interno delle conversazioni, soprattutto in quelle più informali e confidenziali. La psicologia ha reso noto che in base alla nostra personalità se ne fa un uso differente, e questo permette di avere indizi importanti sull’interlocutore di turno che normalmente dedurremmo dal linguaggio non-verbale.
Tuttavia, la dott.ssa Maria Martina Fiorenza, laureata alla triennale di Scienze e Tecniche Psicologiche presso l’Università di Firenze, nel suo progetto di tesi sperimentale per il titolo magistrale, mira ad indagare molto di più. Altri studiosi già sono andati in questa direzione, ma Fiorenza sta svolgendo una ricerca per studiare la rilevazione delle capacità empatiche di una persona attraverso, udite udite, le emoji.
Se a primo acchito può sembrare strano, a pensarci bene risulta quasi immediato che le ‘faccine’ le si usino per dire all’altro ‘lo sto dicendo con questo tono’, lasciando all’altro la deduzione.
Alcune premesse da tener di conto
Oltre a quel poco che già abbiamo accennato, occorre vedere un attimo alcune delle cose che oggi cosa sappiamo sulle emoji.
In primo luogo, queste vengono usate prevalentemente in conversazioni social-oriented, limitando la propria presenza quando si parla di lavoro o si discute per il raggiungimento di un obiettivo. In generale, il loro principale pregio emerso sembra essere quello di connotare emotivamente, come è ovvio, la conversazione, favorendo da una parte chi parla ad esprimersi meglio, dall’altra il ricevitore a cogliere l’accezione corretta di quanto detto, riducendo errori di comunicazione quanto possibile.
Inoltre, è risaputo dagli addetti ai lavori che l’utilizzo delle emoji varia in base ad alcuni fattori, quali il genere. Le donne sembrerebbero utilizzarle più frequentemente e in relazione a sentimenti positivi, riuscendo persino ad interpretarle in modo più corretto degli uomini. Quest’ultimi invece ne fanno uno strumento più funzionale, associandole prevalentemente a discorsi sarcastici (riducendo quindi l’ambiguità delle proprie affermazioni) e comunque di scherzo, trovandosi a selezionare le faccine perlopiù quando inseriti in contesti misti o quando in conversazione con donne.
Le emoji sono anche utilizzate, di recente come indicatori per i tratti di personalità, sottolineandone il legame in numerose ricerche.
Un altro fattore importante è il contesto. Infatti, ma lo sai bene anche tu, è più probabile trovarsi a usare emoji quando si chatta con un parente o un amico stretto. Nelle comunicazioni con colleghi di lavoro, in siti di annunci di vendita et similia, il linguaggio rimane neutro o comunque scevro, riducendo se non eliminando la presenza delle emoticons. Diversamente dal faccia a faccia, in cui ci sentiamo più liberi di esprimere emozioni positive, via internet abbiamo la percezione di essere meno vincolati, per non essere in presenza dell’altro e per l’anonimato, con la conseguenza di esprimere le emozioni negative al pari di quelle opposte.
Oltre a questo tipo di contesto, e come è ovvio questi sono spunti di riflessione più che vere e proprie illustrazioni, anche la cultura di appartenenza gioca un ruolo nell’utilizzo di questo nuovo strumento per la comunicazione mediata. Per fare un esempio, in Occidente si tende ad interpretare lo stato emotivo, quindi anche la connotazione corrispondente alla specifica emoji, più che altro dagli occhi, mentre in Oriente la bocca risulta un indizio più rilevante.
E nel nostro cervello?
Nel nostro cervello, in accordo con studi come quelli svolti da Yuasa e colleghi nel 2006 e nel 2011, sembra che accada esattamente ciò che succede nel riconoscimento delle emozioni quando siamo di fronte ad una persona e la guardiamo in faccia. Si attivano infatti le stesse aree associative, tanto che chi è affetto da autismo mostra le stesse difficoltà che ha nel riconoscere le emozioni anche nel riconoscere le emoticons.
Seconda emoji a destra, questo è il cammino…
Dopo aver intuito quanto sia complessa la questione, vediamo di trovare il bandolo della matassa insieme a Maria Martina Fiorenza.
Martina, da dov’è partito l’interesse per le emoji?
“Beh, in primo luogo la letteratura relativa agli ambienti virtuali, sempre più presenti nella vita delle persone, ha iniziato recentemente a interessarsi all’utilizzo delle emoji, restando ad oggi un campo ancora da esplorare a fondo. La mia ricerca vorrebbe inserirsi in questo senso. E’ interessante capire come vengono utilizzati e che ruolo hanno nella comunicazione mediata, dato che permea il nostro quotidiano, no? Inoltre la letteratura – riassunta per sommi capi nel corso dell’articolo – offre spunti sulla notevole potenzialità di questi elementi comunicativi, per cui non sono riuscita a non esser curiosa e a voler approfondire il rapporto tra emoji e empatia”.
Direi più che comprensibile, specie perché uno studio di questo tipo, suppongo, abbia interessanti risvolti anche applicativi, oltre che di conoscenza, che ad ora magari non immaginiamo. Però ecco, è complesso parlare di empatia, perché anche ai profani della materia suona come una dimensione dell’essere umano complessa e difficile da capire.
A cosa ti sei riferita per tentare di fare un po’ di chiarezza?
“I modelli teorici che spiegano l’empatia sono molti, per cui non è facile districarsi. Ai fini dello studio che sto conducendo, premettendo che è ancora agli inizi, mi sono riferita a due aspetti che per certe correnti di pensiero sono ben distinte, per altre hanno un legame. Comprendendole nella stessa visione, a mio avviso, è possibile allargare il campo visivo della propria comprensione. L’empatia, detto in breve, può essere concepita come avente due facce: da una parte infatti richiama la capacità di immaginarsi ciò che prova l’altro, su un piano dunque più emozionale, mentre dall’altro chiama in campo la dimensione più cognitiva, in riferimento alla Teoria della Mente, ossia la capacità di capire che l’altro ha stati interni, quindi emozioni, pensieri, credenze, intenzioni e desideri diversi dai propri. Entrambe queste facce concorrono nella comprensione dello stato interno dell’altro, nel capire ‘come sta’. Capire quindi chi si ha di fronte, dal momento che viviamo in società organizzate, dal momento che questa funzione può essere alterata da determinate condizioni patologiche e dal momento che il mondo d’oggi è sempre più interconnesso e quindi sempre più relazionale in un certo senso, è fondamentale; uno scenario del genere rende a maggior ragione necessario approfondire in che modo la nuova forma di espressione dell’emozioni che risiede nelle emoji si inserisce in questa ancestrale capacità umana”.
L’argomento affascina indubbiamente, e non può lasciare indifferenti, dato che sembra parlare ad ognuno di noi. Noi, che usiamo smartphone, chat ed emoji con naturalezza, senza sapere realmente o consapevolmente perché scegliamo o leggiamo una faccina in un modo piuttosto che in un altro. Per quanto chiarissimo quello che hai detto, mi sorge un dubbio: com’è possibile misurare una cosa del genere?
“Questo è il nodo della questione. Quello che sto cercando di fare, grazie all’aiuto del dott. Andrea Guazzini e dei colleghi del VirtHuLab, è appunto creare una app software che sfrutti proprio le emoji per rendere misurabile un costrutto come quello dell’empatia. Al momento abbiamo finito di somministrare un pilot test composto da 32 items. In breve, questo è il primo step per sviluppare quello che sarà il software finale che si ispira all’RME, ovvero quel test che, mostrando immagini di occhi e sguardi, misura la capacità empatica del soggetto. Lo stesso voglio fare proponendo le emoji come immagini. Siamo ancora ai primi passi, dato che stiamo analizzando ora i dati raccolti dal test pilota che serviranno a formulare quello definitivo”.
Un’ultima domanda prima di lasciarti andare: dopo questa analisi formulerai il software con cui raccoglierai i dati sperimentali. E da lì?
“Per rispondere a questa domanda è ancora presto. Quello che posso immaginare è che i risultati potranno essere utili per vari campi applicativi. Sto pensando, ad esempio, all’utilizzo di questo test con soggetti affetti da autismo, ma non solo. Immagina se, oltre che per misurare l’empatia, le emoji potessero essere usate come strumento per stimolare questa capacità in soggetti ‘carenti’, come appunto quelli autistici. Potremmo incrementare questa facoltà riducendo le difficoltà relazionali di queste persone proprio grazie a qualche faccina e alla comunicazione mediata?”.
Studiare l’empatia è complesso e richiede attenzione per fare i passi giusti. Più avanti vedremo dove porteranno gli sforzi di Maria Martina Fiorenza e dei suoi colleghi. Intanto però chiedo a te, caro lettore, cosa ne pensi. Hai mai guardato alle emoji in questi termini? E ancora, credi che, esattamente come si auspica Fiorenza, possano divenire strumento di ‘educazione all’empatia’? E se la personalizzazione del volto (ben più complessa di una emoji) che è possibile fare sui personaggi principali di molti giochi, da Fallout 4 a Dragonball Xenoverse 2, potesse andare anche in questa direzione?
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