“Non sono un giocatore perché non ho una vita, ma perché voglio viverne molte.”
Quante volte abbiamo letto questa frase online? Avremmo mai pensato che potesse andare oltre le citazioni da profilo Facebook per affondare le radici nella psicologia?
L’avatar è il mezzo tramite cui interagiamo in un ambiente virtuale (qui l’articolo completo), è l’alter ego che ci permette di esplorare nuovi mondi, ma anche di sperimentare nuove identità.
Grazie agli avatar, e all’ambiente virtuale in cui agiscono, il giocatore può infatti discostarsi dal suo sè in modo agevole ed efficace, senza subire le conseguenze che invece incontrerebbe nella vita reale.
Siamo liberi di sperimentare identità in diversi modi:
UN ME MIGLIORE: il mio me ideale
Tramite il nostro avatar possiamo mostrare una versione di noi migliore della realtà. Ciò accade perché istintivamente vogliamo mostrare la nostra faccia migliore agli altri (come accade per le nostre foto profilo).
Ma non solo: un avatar leggermente migliore di noi può anche agire come motivazione per somigliare al nostro avatar nella vita reale. L’aspetto chiave risiede però nella discrepanza tra la nostra situazione reale e il nostro sè ideale.
Infatti, l’uso di un avatar che si discosta troppo, a livello fisico o di personalità, dalla nostra situazione attuale, configurandosi come desiderio irraggiungibile, può essere un fattore di rischio per sviluppare ansia e depressione (Higgins, 1987).
UN ALTRO ME: travestimenti
Tramite i nostri avatar possiamo anche interpretare un ruolo totalmente diverso da noi.
Ne sono esempi la sperimentazione, specialmente online, di avatar di genere, orientamento sessuale o etnia diversi dai propri.
In questi casi, sperimentare identità può avere un’alta valenza educativa e di apertura mentale, se l’intento è quello di “mettersi nei panni dell’altro”. Capire ciò che si prova ad essere qualcun altro e ad essere trattati come tali rappresenta senz’altro un’esperienza di crescita personale. Questi “esperimenti sociali“ che facciamo su noi stessi possono però anche condurre a dei rischi.
- Secondo Rabindra Ratan, Professore associato di Media and Information all’Università del Michigan (qui il suo sito), questa pratica rischia di configurarsi come un “turismo identitario”. Esso non porterebbe a nessun frutto se non a quello di continuare a reiterare uno stereotipo già esistente, tramite l’effetto Proteus (ne parliamo qui).
I comportamenti che riteniamo “tipici” di altre identità sono infatti radicati nella nostra mente al punto tale che ci adeguiamo ad essi. In altre parole: un giocatore uomo che si sperimenta donna metterà in atto dei comportamenti stereotipicamente femminili, dunque non necessariamente realistici. Non conoscendo la sua vera identità, gli altri giocatori scambieranno per reali i suoi comportamenti, rinforzando una certa idea di femminilità che però può discostarsi dalla verità. - Di conseguenza, un ulteriore rischio coinvolge le persone realmente appartenenti alle minoranze. Ne sono un esempio le numerose ragazze che utilizzano avatar maschili per evitare di ricevere avances durante il gioco. Dando alle minoranze la possibilità di “nascondere” la propria identità, non si fa altro che contribuire a reiterare lo stereotipo del giocatore medio come maschio e bianco.
UN ME PEGGIORE: all out
Tramite il nostro avatar possiamo anche sperimentare emozioni e comportamenti negativi che non potremmo provare nella vita reale, a causa delle regole imposte dalla società.
Questa esplorazione si dimostra fruttuosa sia per i bambini, che possono provare rabbia senza essere sgridati, così come per le ragazze, che possono sperimentare aggressività, o per i ragazzi, che possono provare tristezza senza sentirsi dire di “comportarsi da uomo”.
Non conoscere queste emozioni negative può infatti portare a dei grossi rischi, come il non essere in grado di gestirle in contesti sociali. Di contro, l’intelligenza emotiva, cioè la capacità di riconoscere e controllare le proprie emozioni, è connessa alle abilità di presa di decisione e al controllo dello stress (Rahim et al., 2003).
La citazione “Non sono un giocatore perché non ho una vita, ma perché voglio viverne molte“, seppure stucchevole, assume ora un significato ed una profondità molto diverse. Sperimentare identità è infatti uno strumento di crescita personale molto potente.