Gamer a tre anni, e poi?
Giocare è una delle attività principali dei bambini, oltre che una fondamentale preparazione al mondo adulto. Eppure i videogiochi nell’infanzia fanno preoccupare genitori ed educatori per i possibili effetti sullo sviluppo cognitivo del bambino. Il loro effetto sull’intelligenza è ancora molto dibattuto, e continuerà probabilmente ad esserlo: si tratta di un concetto che può essere definito e misurato in molti modi, e che al tempo stesso è soggetto a influenze molto complesse. Un esempio è il profitto scolastico: se il bambino studia meno dopo aver ricevuto una console, possiamo dire che sia diventato meno intelligente?
Molti degli studi non considerano la fascia d’età della prima infanzia, malgrado il contatto con i videogiochi avviene ormai anche nei primi anni di vita. Già all’età di tre anni i membri della “generazione alfa”, nati dopo il 2010 sono i destinatari di applicazioni ludiche specifiche, di solito per dispositivi touch screen. Diventa fondamentale chiederci se ci possano essere dei vantaggi per bambini così piccoli, al di là del loro intrattenimento.
Uno studio di Fikkers, Piotrowski e Valkenburg ha seguito 934 bambini olandesi dai 3 ai 7 anni, chiedendo ai loro genitori di anno in anno quanti giorni a settimana e per quanto tempo usassero i videogiochi. Nel frattempo degli esaminatori facevano visite annuali alle famiglie sottoponendo i bambini a due prove ricavate da versioni adeguate all’età della Scala Weschler, uno degli strumenti più diffusi di valutazione dell’intelligenza. La prima riguardava l’intelligenza fluida, ovvero la capacità di logica e di risoluzione dei problemi. Nella seconda invece erano richieste conoscenze pregresse, quell’aspetto dell’intelligenza che viene definito cristallizzato.
Intelligenti, ma come?
L’obiettivo dei ricercatori era comprendere se un aumento dell’uso di videogiochi da parte dei bambini fosse associato ad un incremento di questi fattori globali dell’intelligenza, ipotizzando dunque un possibile effetto del media videoludico. Al tempo stesso hanno potuto indagare se al contrario se i bambini riuscivano meglio in questi compiti diventassero giocatori più frequenti, in una ipotesi detta “di selezione”. Sono state infine considerate influenze reciproche: giocando un bambino potrebbe sviluppare abilità che definiamo come intelligenza, e grazie a queste competenze apprezzare e cercare di più l’esperienza videoludica.
I risultati hanno parzialmente confermato l’ipotesi dell’effetto per l’intelligenza fluida: essere videogiocatori alla seconda misurazione prediceva un aumento dei punteggi di intelligenza fluida al terzo test. Contro le aspettative invece non è stata supportata l’ipotesi della selezione: bambini più abili nel risolvere problemi non avevano più probabilità di diventare piccoli gamer. Non stupisce invece che non ci sia alcun legame con l’intelligenza cristallizzata, anzi questo è coerente con la ricerca sugli adulti.
La misura conta
Questi risultati, sostengono gli autori, supportano la tesi per cui stimoli complessi come appunto quelli dei videogiochi, possano essere parte del cosiddetto “effetto Flynn”. Si tratta dell’aumento costante e prolungato dei punteggi ai test di intelligenza osservato negli ultimi decenni. E questo nonostante il timore che le nuove generazioni siano sempre più stupide anche per colpa degli “aggeggi elettronici”!
Risultati del genere fanno sicuramente sorridere chi dei videogiochi ha fatto una parte importante della vita come hobby, studio o lavoro. E’ importante però sottolineare come parte di questo successo potrebbe derivare dal compito proposto. Questo consisteva nel ricostruire strutture di cubi mostrate da un adulto o da una illustrazione entro un limite di tempo. Le abilità richieste di elaborazione spaziale, riconoscimento delle regole e rapida elaborazione, sono infatti analoghe a quelle richieste da molti videogiochi.
Bibliografia
Fikkers, K. M., Piotrowski, J. T., & Valkenburg, P. M. (2019). Child’s play? Assessing the bidirectional longitudinal relationship between gaming and intelligence in early childhood. Journal of Communication, 69(2), 124-143.