Non compro da solo
Gli acquisti all’interno dei giochi sono un tema molto discusso, sia in titoli creati apposta per incoraggiare queste spese (delle cui caratteristiche abbiamo già parlato), che in quelli più tradizionali. A complicare ulteriormente la situazione sono le meccaniche delle “loot box”, da alcuni paragonate al gioco d’azzardo. La legittima attenzione per questi meccanismi ci porta però a trascurare un aspetto importante: spesso in questi giochi le persone non sono sole.
Se in un puzzle alla “candy crush” saremo solo noi a vedere gli effetti del nostro acquisto, molti contesti di gioco online ci mettono a confronto con gli altri. E non solo come avversari da battere con un equipaggiamento migliore, o da stupire con la nuova skin. Se stabiliamo una relazione con loro, non per forza anche fuori dal digitale, possono diventare un modello per le nostre azioni. Ad esempio legittimando o scoraggiando alcune scelte.
Un ottimo banco di prova per questa teoria è il popolarissimo, e controverso, Fortnite. Non c’è alcun obbligo di fare acquisti per poter proseguire nel gioco, eppure molti utenti spendono denaro per acquisti anche solamente cosmetici. Ed ha una fortissima dimensione sociale: è un fenomeno di massa con streaming e competizioni, ma favorisce anche il contatto fra giocatori con multiplayer e chat vocali. Non stupisce quindi che molti, sopratutto fra i più giovani, abbiano trovato nei suoi campi di battaglia un luogo per restare in contatto.
Questione di compagnia
L’influenza sociale negli acquisti emerge da una recente ricerca (King et.al 2020). Sui più di 400 partecipanti del loro sondaggio solo uno su dieci non aveva amici che giocassero come loro a Fortnite e quasi metà del tempo di gioco era passato insieme a loro. Nella maggior parte dei casi gli acquisiti in gioco sono risultati essere almeno settimanali. Ma sopratutto chi aveva amici che spendevano denaro in gioco tendeva a fare altrettanto, e più spesso. In particolare la frequenza con cui l’amico più stretto faceva acquisti risultava il migliore predittore, ancor più delle misurazioni di variabili come l’impulsività.
Questi risultati suggeriscono l’importanza degli aspetti sociali per gli acquisti in gioco. Possiamo spiegarcelo facendo riferimento alla teoria dell’apprendimento sociale (Bandura): gli amici definirebbero in questo caso quanto sia adeguato spendere. Oppure acquistare oggetti o movenze potrebbe essere un modo per coltivare e sottolineare la propria identità in uno spazio frequentato da altri significativi.
Interessante è il fatto che non risulti alcuna correlazione fra le spese e i sintomi di gioco problematico, come il continuare a giocare anche se sta togliendo spazio ad altri aspetti importanti della vita. Sembra dunque che preoccupazioni per acquisti eccessivi in gioco debbano essere considerate in modo autonomo dalla questione del tema dell’eventuale dipendenza.
Il giudizio degli altri
Non essere da soli ci apre però anche al confronto sociale. Come postulato da Festinger già negli anni ’50, tendiamo a valutare noi stessi paragonandoci agli altri. Possiamo quindi provare frustrazione nel vederli più capaci o dotati in qualcosa per noi importante. Un sentimento comune in questo caso è l’invidia, che emerge quando altri hanno qualcosa che desideriamo. Pur non essendo sempre facile da ammettere può essere la spinta a fare meglio per raggiungere anche noi quel risultato. ma anche a svalutare l’altro. E’ il caso della soddisfazione che possiamo provare nel vedere chi ha più di noi perdere qualcosa, tornando al nostro livello.
Cosa succede quanto quel qualcosa in più è stato acquistato, in un ambiente come il gioco dove dovrebbero essere messa alla prova l’abilità? Nel 2015 Evers, Van de Ven e Weeda lo hanno studiato prima con un sondaggio e poi con degli studi sperimentali, usando sia i partecipanti a MMO come Maple Story e World of Tanks che la modalità online di Diablo 3. Erano interessati a capire chi compra oggetti e abilità vantaggiosi fossero meno rispettato dagli altri per questo privilegio “non meritato”.
Questo tipo di giocatori erano effettivamente considerati meno abili e degni di stima avendo “pagato per vincere”. Anche quando era presentato come un possibile alleato, in grado di usare gli acquisti per aiutare i loro compagni, i partecipanti speravano in un loro fallimento ed erano meno propensi ad accettarli nella propria squadra o a soccorrerli quando in difficoltà.
Una importante eccezione in questo senso sembrano essere gli acquisti puramente ornamentali, come le skin, che sembrano molto più accettate e meno fastidiose. E’ poi più accettato il fatto che queste siano permanenti a differenza degli oggetti che danno benefici in gioco. Questo sembra confermare l’idea di una ricerca di mezzi per esprimersi distinta dal voler ottenere vantaggi a pagamento.
Potere ai giocatori?
Questo filone di ricerca, pur poco sviluppato, ci porta a ripensare alcuni approcci ai comportamenti in gioco. Vengono spesso discusse forme di regolamentazione verticale portate avanti da chi chiede, in modi più o meno condivisibili, degli acquisti e delle meccaniche a loro collegate: le lootbox vanno equiparate al gioco d’azzardo? I genitori a cui il figlio di sette anni ha svuotato il conto in banca a suon di upgrade in gioco vanno risarciti?
Eppure, i giocatori stessi occupando gli stessi spazi digitali (e a volte anche nella vita analogica) formano comunità che riflettono e sviluppano delle aspettative condivise su questo tipo di scelte. Possono quindi non essere solo destinatari passivi di eventuali regole, ma contribuire attivamente a formare le abitudini di chi condivide questo hobby. Perchè non immaginare quindi che alcuni possano diventare, magari opportunamente formati, degli esempi positivi di consapevolezza per gli altri di fronte ad esempio agli acquisti eccessivi? Se le spese interne al gioco sono la principale fonte di rendita di alcuni titoli, perchè non considerare la possibilità di un cambiamento dal basso?
L’anno scorso, durante una delle nostre talk al Frobyte Lan Party di Pordenone (la cui edizione 2020 è stata purtroppo annullata vista l’attuale pandemia di COVID-19) sono stati proprio alcuni giocatori a raccontarci di come facessero riflettere i più giovani sui loro acquisti in-game. Frasi come “hai davvero bisogno di quell’oggetto?” o “vale la pena spendere tutti quei soldi per una skin?” dette da qualcuno di esperto possono cambiare la percezione di quello che stiamo facendo. E sono un ottimo esempio di come si possa contribuire, fra di noi, a una sana cultura videoludica.
Bibliografia
Evers, E., van de Ven, N., & Weeda, D. (2015). The hidden cost of microtransactions: Buying in-gameadvantages in online games decreases a player’s status. International Journal of Internet Science, 10(1), 20-36.
King, D. L., Russell, A. M. T., Delfabbro, P. H., & Polisena, D. (2020). Fortnite microtransaction spending was associated with peers’ purchasing behaviors but not gaming disorder symptoms. Addictive Behaviors, 106311.