I fatti
Il 13 settembre 2005 qualcosa di inaspettato accadde all’interno del noto MMORPG World of Warcraft: quel giorno venne rilasciato il dungeon Zul’Gurub, accessibile solo ai giocatori di livello pari o superiore al 60, e in cui era possibile combattere contro il boss “Hakkar the Soulflayer“.

E qui comincia la parte interessante della nostra storia, che forse molti di voi giocatori anziani conosceranno già; voi che invece sentite parlare solo oggi per la prima volta de “l’incidente del Corrupted Blood“, siete pregati di mettervi comodi, sgranare gli occhi e leggere attentamente.
Ebbene, durante il combattimento con Hakkar i giocatori venivano infettati da una “malattia” (in realtà una spell DOT, damage over time) chiamata Corrupted Blood, capace di contagiare per prossimità gli avatar e che provocava la perdita costante di punti vita, ma che era relativamente irrisoria per dei giocatori di livello alto, e soprattutto era circoscritta alla sandbox del boss in questione.
Accadde tuttavia che tramite una scappatoia [1] non considerata dai programmatori, fu possibile portare la piaga “fuori” dall’area del dungeon. Il primo “caso” non aveva intenzione di fungere da mezzo di contagio, ma una volta scoperta questa falla nel sistema, orde di giocatori in vena di trolling si improvvisarono provetti untori e si divertirono a spargere la malattia in giro per il server, provocando così la morte di tutti i giocatori di livello più basso, per i quali invece la spell risultava mortale.
“Beh” vi starete chiedendo davanti lo schermo “quale potevano essere le conseguenze di questa “epidemia” se, tanto, su WoW non si può effettivamente far morire il proprio avatar?“
Sebbene la morte in WoW non sia assolutamente permanente, essa comporta una considerevole perdita di risorse e loot, oltre che di tempo, senza considerare il sistema di resurrection di WoW: esso infatti prevede che per ritornare in vita si debba, sottoforma di fantasma, ritornare sul luogo del proprio cadavere. Come è intuibile, questo provocò, per la maggior parte dei giocatori di livello più basso che perdevano la vita nelle grandi città, una abbastanza fastidiosa morte in loop.
La Blizzard tentò persino di istituire e promuovere forme di quarantena volontaria in game, e i giocatori svilupparono addirittura un sistema di riconoscimento degli infetti.
La pandemia imperversò per 3 giorni sui diversi server di gioco in cui era possibile accedere a Zul’Gurub, fino a che il 17 Settembre il bug fu fixato definitivamente.
Come si sono comportati i giocatori?

Non appena la dimensione del fenomeno divenne evidente a tutti, cominciarono a manifestarsi diverse tipologie di reazione:
- I troll untori: coloro che, come già accennato prima, portarono deliberatamente la piaga nei centri più popolosi;
- I fuggitivi: molti giocatori, spaventati di poter arrecare un danno irreparabile al proprio avatar, si rifugiarono nei posti più sperduti e nella più totale solitudine;
- I buoni samaritani: una certa parte di players, in particolare coloro in possesso di abilità curative, si occuparono di veri e propri “ospedali da campo” in modo da tenere in vita gli ammalati;
- I giornalisti: alcuni giocatori si fecero portavoce di quanto stava accadendo nel gioco cercando di trasmettere continui aggiornamenti sulla pandemia tramite comunicazioni in-game, blog e e-mail.
L’interesse della comunità scientifica
Molti ricercatori e studiosi si sono interessati al fenomeno per via delle sue importanti implicazioni nella ricerca epidemiologica; nel suo lavoro “Modeling infectious diseases dissemination through online role-playing games” (2007) l’epidemiologo e prof. Balicer spiegava per l’appunto quanto WoW avesse rappresentato una eccellente piattaforma per lo studio delle malattie infettive per via delle sue proprietà insite (il contenere un mondo a tutti gli effetti e una popolazione estremamente vasta). Similmente Lofgren e Fefferman (2007), nel loro articolo “The Untapped Potential of Virtual Game Worlds to Shed Light on Real World Epidemics” hanno discusso l’importanza di questo genere di giochi nel modelling epidemiologico, ovvero lo studio dei modelli di comportamento di una infezione virale per poter effettuare delle previsioni. In particolare, Lofgren e Fefferman, approfondendo l’aspetto del comportamento umano, hanno evidenziato come i giocatori mostrassero due reazioni fondamentali: empatia, ma soprattutto curiosità, qualcosa che gli epidemiologi non erano soliti considerare nei loro modelli. Alcuni giocatori infatti, per pura curiosità, si avventuravano nelle zone infette per vedere con i loro occhi il caos, anche a costo di contrarre il virus.
Dal punto di vista della psicologia bisogna considerare l’importanza del “Mapping Principle” (Williams, 2010), secondo cui le persone agiscono determinati comportamenti in maniera simile, sia che si trovino nella realtà o in un mondo virtuale. Il presentarsi dunque di un evento catastrofico in un mondo virtuale e controllato che funga da sandbox, permetterebbe di ricostruire tutto quel range di comportamenti umani che si attiva in concomitanza ad una emergenza “globale”, e lavorare dunque sul come gestirli al meglio durante l’emergenza.
Una testimonianza
Abbiamo raccolto la testimonianza di un noto gamer e streamer, il quale ha preferito mantenere l’anonimato:
- Ciao, ti andrebbe di raccontarmi un pò come hai vissuto questo strano episodio?
“Allora…il mio personaggio era un umano maschio mago, e ci riunivamo spesso la sera con gli amici, verso le 23.00 su un server di RPVP. Noi eravamo a Iron Forge quando gli altri amici della gilda ci contattarono per dirci di non recarci a Zul’Gurub perchè era successa questa cosa (il contagio era in corso)”.
- Ti ricordi se hai avuto in qualche modo paura? magari che il tuo personaggio potesse diventare ingiocabile?
“No, niente affatto, era per lo più una cosa divertente. Tutti quanti, o per lo meno tutti quelli sani di mente capivano che era solo un bug del videogioco e che sarebbe stata fixato subito. Al limite c’erano persone arrabbiate perchè non potevano giocare più. Ma in effetti c’era una cosa molto creepy, ossia che le città erano piene di scheletri“.
- Ti ricordi se qualche giocatore tuo amico ha ruolato l’epidemia? Cioè se si è comportato in-game come se il suo personaggio dovesse realmente fronteggiare quest’evento nel mondo reale?
“Possibilmente qualcuno lo ha fatto…ecco magari qualcuno poi ha messo nel BG del suo personaggio che era un “sopravvissuto all’epidemia” “.
- Vedi qualche somiglianza con la situazione attuale del virus COVID-19?
“Mah, non proprio… non c’era lo stesso senso di pericolo. La cosa interessante adesso magari, guardando indietro nel tempo a quell’evento, sarebbe sfruttarlo come esperimento per una pandemia nel mondo reale e prevedere certi comportamenti delle persone…“
P.S. Ringrazio il mio caro amico Antonio Maria Nicolosi per avermi dato l’idea di scrivere questo articolo, e a cui quindi va una meritata dedica.

Bibliografia
Ahmad, M.A., et al. (2014), Predicting Real World Behaviors from Virtual World Data, Springer Proceedings in Complexity, Springer International Publishing Switzerland.
Lofgren, E.T. and N.H. Fefferman. (2007), The Untapped Potential of Virtual Game Worlds to Shed Light on Real World Epidemics. The Lancet Infectious Diseases. 7, 625-629.
Smith, J. (2012), Guide to the Corrupted Blood Plague Documentation Collection. Stanford University Library.
Balicer, R. D. (2007), Modeling infectious diseases dissemination through online role-playing games, Epidemiology. 18(2), 260–261.
Williams, D. (2010), The mapping principle, and a research framework for virtual worlds. Commun. Theory. 20(4), 451–470.
[1] Quando un giocatore chiamava a supporto i propri companion, che fossero i pet dei ranger o i demoni degli stregoni, anche questi venivano colpiti dal debuff di Hakkar, ma a differenza del loro padrone, per loro l’effetto durava anche al di fuori dell’area di scontro