Self reale e Self virtuale
Il nuovo millennio ha rappresentato uno spartiacque con il modo di guardare al mondo, di vivere le relazioni e di interagire con gli altri. È un periodo innovativo e del tutto nuovo in cui iniziano ad emergere le potenzialità di internet applicato alla vita quotidiana e soprattutto a nuove modalità di interazione virtuali.
L’avvento dei social network o più in generale di programmi e app di messaggistica istantanea hanno ridisegnato il rapporto tra noi e gli altri, introducendo una distinzione tra quello che si può chiamare self reale (come siamo nella realtà quotidiana) e quello che è il self virtuale (come siamo e come ci comportiamo nella rete). Questa nuova configurazione dei rapporti sociali ci ha permesso di sperimentare nuove forme di comunicazione che superino le barriere del tempo e dello spazio. Ma soprattutto ci permettono di creare tante potenziali versioni di noi stessi virtuali, che possono essere simili o completamente diverse da come siamo nel “mondo reale”. Questo ci permette una sorta di fuga dalla realtà e di immersione in mondi alternativi che non potremmo mai sperimentare in altro modo. Questo per poter avvenire implica la necessità di sperimentare nuove forme di apprendimento che siano più dinamiche e veloci rispetto a prima. Si tratta quindi di apprendere il funzionamento di nuovi programmi, app, ecc. ma allo stesso tempo di apprendere da questi stessi software.
Quando si può parlare di immortalità digitale?
Con questo termine possiamo intendere diverse cose ma mi contrerò soltanto su due concetti. Il primo riguarda il fatto che tutto ciò che noi carichiamo, scriviamo e quindi <<lasciamo>> di noi stessi sulla rete non sparisce mai del tutto, ma resta sottoforma di tracce virtuali, come dei segni del nostro passaggio in quei luoghi (anche se virtuali). Una sorta di immortalità della nostra memoria e di quello che abbiamo fatto all’interno della rete, una cosa del tutto innovativa rispetto al passato in cui il ricordo dell’attività di qualcuno passava attraverso opere concrete e non virtuali.
Il secondo concetto invece riguarda la potenzialità di creare delle copie virtuali di noi stessi che siano in grado di apprendere e interagire con altre copie virtuali o con il mondo <<reale e concreto>>. Si tratta di creare una cosiddetta “persona virtuale” ovvero <<una rappresentazione digitale di ricordi, conoscenze, esperienze, personalità ed opinioni di un essere umano in carne ed ossa>>. Concettualmente può assomigliare per certi versi a quello che accade in Ghost in the Shell anche se non si tratta di un vero e proprio trasferimento di coscienza ma quando piuttosto ad un trasferimento di conoscenze provenienti da un essere umano ad una macchina. Una copia virtuale che apprende ed interagisce con il mondo circostante attraverso algoritmi. Ma l’aspetto interessante è che l’essere umano che si è fatto “clonare virtualmente” può essere ancora in vita oppure no. Ed ecco il punto centrale della questione: quella persona continuerà a vivere (virtualmente) attraverso uno sviluppo potenzialmente infinito e ad interagire con coloro che sono al di fuori del mondo virtuale, ad esempio attraverso Skype e chat testuali. Si tratta comunque di uno scenario che presente problematiche etiche, legali e morali considerevoli ma che è sicuramente la forma più vicina all’immortalità che l’essere umano abbia mai raggiunto fino ad ora.