Shadow of the Colossus: fino a dove sei disposto a spingerti per salvarti dal senso di colpa?

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Quando Shadow of the Colossus sbarcò su Playstation 2 rivoluzionò totalmente l’esperienza videoludica comunemente intesa. Nel 2005, infatti, se avevamo una certezza, questa era proprio la consapevolezza di vivere l’avventura di un eroe e, in quanto tale, tutte le nostre azioni erano dirette ad un fine ultimo giusto o, quantomeno, utile.

L’obiettivo dell’eroe è qualcosa per cui vale la pena di lottare, di morire, di provare e riprovare.

Ma Shadow of the Colossus tradì questa aspettativa.

Per la prima volta, infatti, ci troviamo a impersonare Wander, un personaggio che risponde a dei comandi senza farsi troppe domande, accecato dal desiderio di raggiungere il suo obiettivo e placare il proprio senso di colpa, ignorando le conseguenze derivanti da tale scelta.

 

Secondo il punto di vista della psicologia cognitiva, il senso di colpa è un’emozione sperimentata da coloro che sono convinti di aver arrecato un danno, tra cui azioni che tradiscono i propri valori e la propria morale. Sentirsi in colpa è del tutto appropriato se si è fatto qualcosa di sbagliato, ma il problema si presenta quando si rimugina sulla propria colpa, perché è dal pensiero che origina l’emozione. Un’azione, infatti, non può essere cambiata, non importa quanto lo si desideri, ma non è lo stesso per il pensiero che ne deriva.

Wander, invece, è incapace di abbandonare questo circolo vizioso, il suo fardello è troppo pesante.

 

Shadow of the Colossus è stato il primo videogioco a inscenare come nella realtà le persone possano agire in maniera irrazionale, impulsiva e sfrontata, basandosi sulla buona fede e suoi propri ideali, per poi accorgersi della posizione presa e di dove questa li abbia portati. In pochissime ore di gameplay Fumito Ueda è riuscito a inscenare questo inganno, convincendo il giocatore, almeno inizialmente, della bontà degli ideali di Wander, l’eroe che aiutiamo nel tentativo di riportare in vita Mono, morta a causa del suo “destino maledetto”.

 

Tuttavia, bisognava capirlo dal principio, da quella cavalcata silenziosa in una terra proibita, che quell’impresa non doveva essere compiuta. Gli stessi Dormin a cui ci rivolgiamo ci dicono che le anime perdute non possono essere più reclamate, “non è forse questa la legge degli uomini?”. Saremmo dovuti tornare indietro, rinunciare ad intraprendere questo viaggio e accettare la morte di Mono, perché quel che è fatto è fatto. Basterebbe riflettere sul paesaggio che ci si pone davanti per capire che quella terra, che così falsamente promette vita, è in realtà un ricettacolo di morte, come ne fanno da monito le costruzioni diroccate che si ergono fra la natura rigogliosa.

Ma nonostante ciò noi proseguiamo, aggrappandoci a quell’unica possibilità che ci viene data, perché con quella spada, forse, potrebbe non essere impossibile riavere Mono indietro.

L’intro del gioco ci presenta uno scenario estremamente stereotipico: un eroe armato di spada, il suo fedele destriero, una ragazza da salvare. Ci viene naturale prendere le parti di Wander e abbattere le colossali creature per permettergli di raggiungere il suo obiettivo. È così che Fumito Ueda ci mostra con che facilità crediamo all’apparenza delle situazioni, specie quando queste ci sembrano familiari e prevedibili. Ma quello che ignoriamo è la potenza del senso di colpa di Wander, talmente profondo e viscerale che lo spinge a seguire cecamente le indicazioni dei Dormin, nonostante tutto intorno a lui gli suggerisca di desistere, a partire dalla desolazione della terra in cui si trova, dal sangue nero che sgorga dai colossi abbattuti, dai fasci oscuri che si fondono al suo corpo rendendolo sempre più debole e dall’allarmante silenzio che segue l’ultimo colpo inferto ai colossi, quello fatale. Nonostante ciò, il giocatore è convinto di essere nel giusto, niente lo fa esitare, fino alla fine quando, ormai troppo tardi, ci si rende conto di essere stati manovrati.

Ci sentiamo traditi, perché tradito è il patto implicito tra videogioco e videogiocatore, in cui il primo pone un obiettivo e il secondo lo segue senza domandarsi il perchè, convinto della soddisfazione che ne trarrà una volta completato. E invece, Fumito Ueda ci fa riflettere e ci colpevolizza perché, al pari di Wander, ci siamo sporcati le mani e ci sentiamo responsabili. Ecco che il senso di colpa vissuto dal nostro “eroe” in Shadow of the Colossus risuona anche nel nostro mondo.

 

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