Il mondo digitale si può paragonare a una sorta di agorà, in cui è possibile incontrarsi, comunicare, fare nuove amicizie così come nella vita reale, abbandonando però l’essere presenti e il vivere nella socialità corporea. La più grande differenza tra la socialità virtuale e quella reale e fisica, è la sostanziale condizione di incorporeità.
Citando il sociologo Rheingold “nel cyberspazio facciamo tutto ciò che si fa quando ci si incontra, solo che lo facciamo su un monitor lasciandoci alle spalle i nostri corpi”.
L’incorporeità, che caratterizza le relazioni sul web, potrebbe andare ad incidere sulla formazione della nostra identità personale e sociale, sulla nostra costruzione del Sé e delle stesse strutture di ruolo.
Ne deriva che le persone sui social network, sulle chat, sembrano diventare maschere. Altri sostengono il contrario ed è proprio a tal proposito che Giuliano parla di “virtualizzazione dell’identità” non come un processo che falsifica le identità, ma come una sperimentazione con la quale creare uno spazio in cui è possibile esprimere aspetti della nostra personalità altrimenti penalizzati dalle regole e dai ruoli che tutti i giorni, nel quotidiano dobbiamo interpretare. Ed è utile chiedersi se il camuffamento dell’io sotto una maschera, possa aiutare oppure ostacolare lo sviluppo della propria identità, ossia di un Sé saturo, come definito da Gergen, ricco e con un potenziale enorme, oppure di un Sé frammentato, incapace di un autocontrollo.
Per poter analizzare bene lo sviluppo di una identità solida è utile notare come il tema su essa oscilli in continuazione tra individuo e società, dal momento che viene posto un grande accento sul ruolo delle interazioni sociali o sulle caratteristiche interiori dell’individuo.
Lo sviluppo dei mezzi di comunicazione ha esercitato un’influenza notevole sui processi di autoformazione che, a partire dalla stampa, si legano sempre più all’accesso a forme di comunicazione tramite altre piattaforme di mediazione. Si passa così da una conoscenza locale ad una conoscenza non locale, riprodotta attraverso i media che, come si è detto, hanno dato luogo al superamento delle distanze spazio-temporali. In tal modo gli individui possono allargare i propri orizzonti di comprensione che non si limitano più ai modelli offerti dall’interazione faccia a faccia, ma passano attraverso i mass media che, in tal senso secondo Thompson, costituiscono dei “moltiplicatori di mobilità” sociale. Il passaggio da una conoscenza locale ad una non locale, fa sì che le risorse simboliche a disposizione dell’individuo per la formazione del proprio Sé, siano sempre più abbondanti e vengano mediate dai moderni strumenti di comunicazione. Ciò comporta anche la possibilità, per gli individui, di sperimentare forme di vita alternative.
In un contesto di media, di telecomunicazioni sempre più veloci e accessibili, l’individuo postmoderno sente il bisogno di rispondere alla domanda sulla propria identità senza far riferimento a identità univoche e istituzionali come possono essere “marito” o “figlio” etc. perché rifiuta di identificarsi in schemi rigidi; si rifà più che altro a quello che Gergen definisce come “pastache personality” cioè un camaleonte sociale in grado di prendere in prestito frammenti di identità per combinarle poi in modo tale da poter creare un sé che sia il più possibile adatto alla situazione in cui è inserito. Si assiste al già teorizzato da Freud, processo della “moltiplicazione de Sé”.
Un ultimo punto da considerarsi importante per quanto riguarda la costruzione di un Sé in rete è la condizione di pseudo-anonimato, che rappresenta una forma di mascheramento dell’identità anagrafica, ma che seguendo gli studi di Rodotà sembra facilitare ad esempio la partecipazione politica e sociale degli utenti della rete.
Con l’arrivo del mondo digitale le nostre possibilità e modalità di comunicare sono cambiate. Nel mondo digitale è possibile enfatizzare le proprie caratteristiche positive ed omettere quelle negative. Il web, le chat sono però anche una enorme possibilità per chi è particolarmente introverso e con bassi livelli di autostima di compensare le proprie carente di abilità interattive eludendo quei problemi nella conversazione vis à vis che potrebbero generare ansia sociale. Questa ipotesi definita “Poor get Rich Hypotesis” o come ipotesi della Compensazione sociale è contrapposta dalla “Rich get Richer Hyotesis” secondo cui i social network sarebbero una ulteriore opportunità, insieme alla comunicazione diretta, per i soggetti estroversi con un elevato livello di autostima.
L’analisi che si può attuare sul rapporto narcisismo-autostima-insicurezza si potrebbe ad esempio attuare osservando ad esempio i social network o il selfie, quest’ultimo come estrema rappresentazione del bisogno di auto-conferma narcisistica.
Nel mondo virtuale il Sé ideale sembra essere predominante: c’è infatti una tendenza dei soggetti a enfatizzare proprie caratteristiche positive omettendo quelle negative per veicolare una immagine di sé il più positiva possibile, e poco importa se essa può essere poco veritiera. I social network (Instagram e Facebook in particolare) sono contesti ideali per l’espressione del Sé ideale, in particolare per quella sua sottodimensione definita come “desiderato”.
Una vera dimostrazione del narcisismo digitale può essere considerata il selfie, o autoritratto.
Il fine della pubblicazione di un selfie non nasce dal bisogno di una relazione reale, ma deriva dalla necessità di un’auto-conferma narcisistica. Secondo Barbieri, il pensiero che si produce quando una persona scatta e condivide un selfie non è orientato verso il mondo interno individuale, ma si concentra su un pensiero di auto-rispecchiamento della persona che lo posta. Il selfie ha un percorso diverso da altre tipologie di pubblicazioni online: viene visto sia dal creatore stesso del selfie, sia da altre persone e assume così un valore sia relazionale ma sia identitario.
Il selfie può rappresentare quella identità ideale che l’individuo mostra al meglio, ma può essere anche solo una parte de Sé che il soggetto deliberatamente sceglie di mostrare, escludendone un’altra. È una immagine “immaginata”, una rappresentazione di sé che l’autore del selfie costruisce fuori dalla realtà fenomenica.
Nel mondo del web la corporeità è praticamente sempre esclusa, dai forum scritti, ai video, come nei selfie, ma in questi ultimi essa è contrariamente a quanto si possa pensare, ostentata. La ricerca del mettersi in mostra come persona, di mostrare valori di realizzazione personale sono solo alcuni dei tanti motivi per cui una persona può fare un autoscatto. Il corpo che compare nel selfie creativo non è il corpo che si è ereditato alla nascita senza poterlo scegliere, ma una sua reinvenzione. Dato che non possiamo scegliere come nascere possiamo almeno crearci attraverso mezzi di comunicazione al prossimo ed è per questo che il selfie può essere considerato come un mezzo di auto-creazione. Autori quali Morf oppure Rhodewalt ritengono che il selfie sia un sistema di regolazione, una manovra psicologica, del proprio Sé narcisistico.
Che i nuovi media spingano le persone a mettere maschere o a mostrare solo la parte migliore di Sé non è l’unico lato della medaglia: i social network infatti possono essere visti anche come una sorta di palestra per la costruzione del Sé.
Riuscire a esprimersi mettendo da parte l’ansia che possono creare le interazioni vis à vis può essere un modo per aiutare le persone a mostrare agli altri le proprie doti e per poter comunicare con chi non sarebbe raggiungibile. I media sono una piazza, digitale, in cui tutti sono alla pari ma che le persone possono sfruttare per mostrare anche lati di Sé che potrebbero essere socialmente sbagliati.
Tutto sta all’uso che se ne fa, dopotutto il cambiamento nei modi di comunicare non è necessariamente né positivo né negativo ma semplicemente diverso.