Quando piatto è meglio – Il fascino discreto delle due dimensioni

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Ricordo ancora il passaggio generazionale delle console negli anni ’90: ero fin troppo entusiasta del mio Mario sullo SNES per poter desiderare i nuovi giochi, dove la parola d’ordine era tridimensionalità. Una innovazione che ha sicuramente cambiato il mondo videoludico, regalandoci mondi sempre più dettagliati e realistici

Eppure, come tanti altri giocatori, continuo ad avere un debole per titoli che mantengono una grafica a due dimensioni. Riflettendo sulle possibili ragioni ho notato come, seppur personali, abbiano molto a che fare con il modo in cui queste apparenti limitazioni tecniche possono paradossalmente arricchire l’esperienza del giocatore.

La prima, riferita in particolare al genere platform, è come le due dimensioni influenzino il movimento all’interno dello spazio. Se questo genere di giochi si basa principalmente sulle traiettorie di movimento dei personaggi rispetto a un ambiente, è chiaro che questo deve essere in qualche modo ristretto per ottenere una sfida adeguata: non stupisce che anche classici 3D di questo genere come Crash e Spyro facciano spesso uso di tratti in cui il margine per manovre laterali è limitato. Ma quando il giocatore non può schivare le potenzialità di questo espediente emergono pienamente. Un ottimo esempio è quello dei primi due Oddworld.

 

Oltre alle capacità offensive quasi nulle del nostro personaggio la struttura “piatta” dei livelli li rende ancora più letali: evitare il confronto diretto con i nemici è spesso quasi impossibile a meno di non usare l’astuzia, e del resto una volta attirate attenzioni indesiderate non sempre darcela a gambe potrà salvarci.  Il fatto che l’esplorazione degli scenari sia concessa solo in orizzontale e verticale rende benissimo la natura al tempo stesso claustrofobica e vertiginosa degli ambienti. Lo sfondo e le scene di intermezzo ci mostrano infatti scorci di enormi strutture industriali e minerarie, spazi di vuoto per lo più inaccessibili che ci tengono confinati in precarie passerelle meccaniche, quasi tutti i personaggi fossero prodotti in una catena di montaggio (cosa non molto distante dalla realtà della storia…).

 

Il protagonista Abe appare sempre piccolo, precario e sul punto di disturbare pericolosi equlibri in un mondo ostile. E’ un punto di vista diverso da quello in prima persona o alle spalle del personaggio, che ci consente però visuali di queste strutture su piani e livelli altrimenti impossibili da altre prospettive, e su cui si basano molti degli enigmi del gioco.

E questo mi porta alla seconda ragione per cui il 2d continua a esercitare su di me il suo fascino, dovuta a come esso limiti la rappresentazione di oggetti e personaggi.  Prendendo come esempio gli RPG possiamo avere prospettive visuali che combinano diverse prospettive come delle pitture egizie.

(Fates-8 Stories, del nostro Gabriele Barone, il 5/02/19 su Steam)

Ora, ci vuole un minimo di immaginazione per dire che quei quadrati marroni sono delle casse, così come il super deformed in stile manga non è esattamente una rappresentazione realistica di un essere umano. Si tratta di un codice acquisito, che colma questo scarto fra ciò che vediamo e ciò che immaginiamo alla base fascino di questo stile grafico. Quelli che vediamo non sono solo rappresentazioni, ma anche segni di un linguaggio: un grumo di pixel sbiechi può diventare l’erba alta di Bosco Smeraldo, o una enorme fortezza. Quello che conta è la presenza di alcuni elementi basilari e salienti, come gli occhi nel caso della figura umana o di zanne e artigli per un mostro, per stimolare nella nostra immaginazione una rappresentazione ben più completa anche se non per forza dettagliata. Ecco forse perchè di fronte a remake o capitoli successivi dalla grafica maggiormente definita possiamo trovarci un attimo perplessi, dato che quell’edificio o quel personaggio non lo avevamo immaginato esattamente così. Forse non avremmo avuto nemmeno bisogno dei dettagli, ci bastava che la figura ci venisse suggerita in modo vago ma ottimale nello stimolare la nostra fantasia, lasciando sempre un margine di indefinito.

Una contrazione quindi di spazi e rappresentazione che proprio ponendo un limite stimola un processo creativo che non ha tanto a che fare con il gioco in sè, ma con l’esperienza personale, dunque psicologica del giocatore.

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