Traumi virtuali

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Lo schermo, si nota spesso nella psicologia delle tecnologie, ha un effetto filtrante: quello che vediamo li dietro è lontano, a volte irreale, attiva meno le nostre emozioni. Ma può essere anche qualcosa che sconvolge l’esistenza e che da cui ci sentiamo sopraffatti. Il corpo e la mente sono in perenne allerta, l’esperienza sembra tornare nei più impensabili e impadronirsi della nostra esistenza.

È necessario quindi chiedersi se e come qualcosa di vissuto in modo mediato possa essere traumatico.

Disturbo post traumatico da fatalities?

L’8 maggio 2019, il rinomato blog Kotaku ha pubblicato un’intervista ad un anonimo sviluppatore, il quale, dopo un mese di assiduo lavoro sulle scene cinematiche di Mortal Kombat 11, ha dichiarato di aver iniziato a mostrare sintomi di Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD), diagnosi poi convalidata da un medico.

Si tratta di un disturbo solitamente associato all’esposizione ad un evento che mette a rischio sopravvivenza o integrità psicofisica della persona. Questa presenta poi sintomi in cui rivive l’evento traumatico in modo intrusivo (ricordi ricorrenti, incubi, reazioni corporee), accompagnati da un aumento dell’attivazione fisiologica (arousal). Nel tentativo di proteggersi da queste esperienze la persona evita sollecitazioni interne o esterne ad esse legate, mentre il suo umore i processi del pensiero si deteriorano. Si vive così spesso fra perenni stati di allarme e incapacità a percepire emozioni positive, con percezioni negative di sè e degli altri.

Dunque i giochi violenti causano Disturbi Post-Traumatici?

Questa notizia apre una finestra senza precedenti sulla salute mentale degli sviluppatori di videogiochi violenti. Infatti, se il giocatore entra in contatto con le fatalities (le animazioni fotorealistiche del colpo di grazia) solo per pochi secondi per partita, sviluppatori e artists le vivono per molto più tempo. Una sola scena può infatti richiedere giorni o settimane di lavoro per essere completata.

Le testimonianze

Lo stesso art director Steve Beran, collega dello sviluppatore intervistato, sottolinea il grado di realismo a cui siamo arrivati, e le sue conseguenze. Ogni scena viene studiata nei minimi particolari non solo dal punto di vista anatomico, ma anche dal punto di vista estetico. Come reagisce il sangue in contatto con diversi tessuti, o con la terra? Alla NetherRealm Studios hanno trovato risposte a queste domande facendo guardare a sviluppatori e artisti filmati reali di omicidi ed incidenti.

Anche Alex Hutchinson, game director di Assassin’s Creed III e Far Cry 4, ha affermato che, mentre per il giocatore l’impatto delle fatalities è assorbito parzialmente dal brivido della vittoria o della sconfitta, per l’osservatore passivo è tutta un’altra storia, soprattutto con l’ascesa del fotorealismo. A tale proposito cita l’esperienza di un amico, animatore per Outlast 2, il quale scherzosamente lamentava la quantità di tempo passato a modellare “bambini morti, definendolo “non il suo passatempo preferito”.

 

Il caso Norman

Va però notato l’illustre precedente di Norman, la prima intelligenza artificiale (AI) dichiaratamente psicopatica, creata a partire da materiale reperito su  Reddit e 4chan. Anche se più che di psicopatia, che indica una mancanza di reazioni empatiche per la sofferenza altrui, l’AI in questione sembra piuttosto interpretare gli stimoli come minacciosi a prescindere.

Il povero Norman è stato costretto a guardare filmati di omicidi ed incidenti per tutta la sua vita. Gli sono state poi presentate una serie di macchie di inchiostro tratte dal test di Rorschach (test reso famoso dalla sua comparsa in molti film, come Watchmen), e gli è stato chiesto di dire cosa vedesse nelle macchie. Dove una AI normale vede due persone che si guardano in viso, Norman vede un uomo che si getta da una finestra, dove l’AI vede un uomo con un ombrello, Norman vede un uomo che viene ucciso di fronte alla moglie urlante. Insomma, sembra avere una percezione negativa del mondo proprio come chi ha vissuto esperienze traumatiche.

(Qui la pagina dedicata a Norman; qui il nostro articolo a riguardo)

 

Violenza per immagini

Non è però il primo caso di professionisti che soffrono a causa del materiale con cui vengono a contatto. Nel 2013 il primo studio di questo tipo coinvolse giornalisti che lavoravano con frequenza anche quotidiana con immagini disturbanti. Questi mostravano punteggi più elevati nelle misurazioni di sintomatologie che includevano l’evitamento, ri-esperienza e arousal associati al PTSD. Queste evidenze sono importanti anche alla luce dell’uso sempre maggiore di contenuti generati dagli utenti nell’industria dell’informazione. Video e audio di eventi drammatici messi in rete da testimoni sono spesso fonti preziose e assai richieste. Devono però essere filtrate per dare informazioni utili per i canali ufficiali .

Un compito simile a quello dei moderatori di Facebook, che nel 2017 il Wall Street Journal ha definito “il peggior lavoro” nel settore della tecnologia. Ore e ore a passare al vaglio discorsi d’odio, omicidi, abusi, torture e altri contenuti che violano gli standard della comunità. Quello che hanno denunciato alcuni ex impiegati a “The Verge“, è sopratutto lo scarso supporto psicologico ricevuto durante l’addestramento, fino all’uso di sostanze sul posto di lavoro pur di mantenere una parvenza di equilibrio.

Altrettanto impattante sembra essere l’esposizione prolungata a materiale complottistico e politicamente estremo, in grado mettere in crisi convinzioni consolidate nella vita di tutti i giorni. La loro possibilità di influenzare gli eventi terribili a cui assistono è poi praticamente nulla: si assiste impotenti  senza poter in alcun modo aiutare le vittime, a volte neppure rimuovere il video stesso per dettagli del regolamento. Ed è proprio la percezione di mancato controllo uno dei fattori di rischio per una evoluzione patologica di queste situazioni.

Il Dart Center For Journalism and trauma in questo senso ha rilasciato una lista di consigli pratici per chi si trovi a lavorare con materiale mediatico potenzialmente traumatico: evitare inutili esposizioni ripetute, trovare modalità per distanziarsi dall’immagine, ridurre l’impatto ad esempio togliendo l’audio o riducendo le dimensioni dello stimolo. Ma questo è chiaramente impossibile se sottoporti a materiale del genere è quello che sei pagato per fare.

Gli spettatori

Un altro filone di ricerca è quello che ha ricollegato l’emergere di sintomi del PTSD all’esposizione alla rappresentazione di eventi terroristici da parte dei media, in particolare fra bambini ed adolescenti. L’esposizione indiretta probabilmente aumenta la percezione di rischio per se stessi e disturba la routine quotidiana, incrementando il rischio di sintomatologia post traumatica in individui vulnerabili.

Uno studio ha seguito più di 4000 persone nelle settimane successive all’attentato del 2013 alla maratona di Boston (Holman, Garfin, Silver-2013). Ne ha poi confrontato vari indicatori di salute mentale dividendoli due gruppi rispetto agli indicatori del Distrubo Acuto da Stess. Si tratta di manifestazioni di risperimentazione, evitamento e alterazione psicofisica che si presentano fino a un mese dopo l’esposizione al trauma ma non necessariamente perdurano nel tempo. Chi aveva vissuto direttamente l’evento accusava sintomi ma sorprendentemente non sempre sufficienti per una diagnosi e neppure più alti della seconda categoria. Chi invece si era sintonizzato su notizie relative all’attentato per più di sei ore al giorno aveva nove volte più probabilità di riportare reazioni acute da stress di coloro chi avevano una esposizione mediatica minima.

Dato che queste reazioni possono precedere i sintomi da PTSD veri e propri ma anche disturbi fisici come problemi cardiaci, le implicazioni per la salute di queste ricerche sono molto significative. In eventi collettivi di questa portata persone anche in aree geograficamente distanti possono restare vigili e continuare a monitorare i media in cerca informazioni. Si tratta di una reazione fondamentale per la sopravvivenza, ma che in un mondo mediato ottiene continue conferme sotto forma di immagini e dati.  La minaccia viene così sentita sempre incombente, esacerbando il disagio e impedendo un ritorno alla vita normale.

Traumi in rete?

La letteratura indica inoltre che bambini e adolescenti esposti a traumi collettivi come l’11 settembre via internet sembrano avere un rischio maggiore di sintomatologia post traumatica (Saylor et.al-2003) . Questo può essere dovuto alle caratteristiche stesse della rete. E’ possibile infatti condividere immagini più esplicite di quanto presentato in televisione ed essere esposti ripetutamente agli stessi contenuti. La possibilità di comunicare con altri utenti può inoltre portare a sentirsi circondati da reazioni emotive anche molto forti.

DSM-5, il manuale diagnostico-statistico fra i più usati come riferimento dai professionisti della salute mentale, non include del tutto le situazioni da noi descritte.  Il primo dei criteri per una diagnosi di PTSD include  l’esposizione ripetuta ai dettagli cruenti dell’evento, ma specificamente non attraverso “media elettronici, televisione, film o immagini” eccetto i casi in cui questo sia collegato al lavoro svolto.

Vista la crescente importanza di internet e delle rappresentazioni digitali nelle nostre vite, viene da chiedersi se in futuro saranno sempre più diffuse le reazioni a eventi traumatici “virtuali” mai direttamente vissuti ma non per questo sentiti come meno reali.

 

Articolo a cura di Ambra Ferrari e Daniele Brussolo

Bibliografia

Feinstein, A., Audet, B., & Waknine, E. (2014). Witnessing images of extreme violence: a psychological study of journalists in the newsroom. JRSM Open, 5(8), 

Holman, E. A., Garfin, D. R., & Silver, R. C. (2013). Media’s role in broadcasting acute stress following the Boston Marathon bombings. Proceedings of the National Academy of Sciences, 111(1), 93–98

Saylor, C. F., Cowart, B. L., Lipovsky, J. A., Jackson, C., & Finch, A. J. (2003). Media Exposure to September 11. American Behavioral Scientist, 46(12)

 

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