Giocare ad aspettare? Il caso degli idle games

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Mi diverto con niente

Se chiedessimo ai non addetti ai lavori quale dovrebbe essere la caratteristica principale di un gioco, una delle risposte più comuni (per la disperazione degli studiosi di game design) sarebbe “deve essere divertente”. Con questo si intende di solito la capacità di intrattenere, spesso in modo leggero e piacevole, l’attenzione del giocatore. Comunemente questo avviene proponendo una qualche interazione, qualcosa da fare di diverso rispetto ai compiti quotidiani.

Eppure ci sono prodotti, anche di grande successo, in cui il contributo del giocatore è assolutamente minimo. Assurdo? Eppure proprio in questo consistono quelli che ormai sono definiti “idle games” o “clicker games”.

La loro origine risale ai primi anni duemila con titoli come “Progress quest” dove si crea un proprio personaggio per poi vederlo svilupparsi autonomamente in un mondo fantasy. L’interfaccia puramente testuale può strappare un sorriso mentre il nostro “uomo anguilla strangolatore” uccide un drago preadolescente per ingraziarsi dei brontosauri (almeno questo è accaduto nella mia prima sessione) ma è decisamente lontano da quel che comunemente chiamiamo gioco. E’ parte di un sottogenere definito “zero player games” perché appunto indipendenti dal giocatore.

Altri invece sono pensati per essere una attività secondaria, tenuti aperti occupando poca attenzione mentre facciamo altro. Sono i cosiddetti “ambient games”.

Infine abbiamo i “background games” dove gran parte dell’azione avviene anche senza che il giocatore sia collegato. Ed è in questi che l’attesa diventa una parte stranamente importante.

Niente di nuovo sullo schermo?

Zynga è una compagnia di giochi per social network fondata nel 2007, che ha conosciuto un successo planetario attorno al 2010 con l’esplosione di Farmville e dei suoi omologhi. Il loro raggiungere centinaia di milioni di giocatori sembra un insulto ai principi per cui un buon gioco sarebbe “una sequenza di scelte interessanti”, come avevamo visto in questo articolo. Anzi, la cosa inquietante è che dietro l’aspetto simpatico e gradevole la nostra fattoria virtuale non rappresenta una esperienza piacevole e interessante, quale sarebbe quella di un gestionale alla “Stardew Valley”. Aspettare tempi anche molto lunghi fra un click e l’altro necessario per mandare avanti i lavori nella nostra fattoria è tedioso, tanto che i giocatori sono disposti a pagare risorse interne al gioco o denaro reale (con meccanismi di cui abbiamo già scritto in passato) pur di accelerare questi processi.

Sia chiaro, questi social games sfruttano meccanismi ben noti alla psicologia sperimentale e già presenti anche in giochi più tradizionali. Possono essere riferiti a quattro categorie.

La prima riguarda lo spazio di gioco. Nella meccanica del “raccolto” ad esempio una risorsa viene spesa per ottenerne un’altra più tardi, cosa facciamo anche in “animal crossing” o negli orti di bacche in vari titoli di “Pokèmon”. Questo ci fornisce quello in psicologia definiamo unrinforzo ad intervalli fissi, dopo un certo periodo di tempo sappiamo che avremo una ricompensa per la nostra azione, e ci ricollegheremo al gioco. Al tempo stesso però i nostri raccolti possono appassire, quindi se non continuiamo a prendercene cura con i nostri click perderemo le risorse. Questa è lafallacia del costo irrecuperabile, che ci vede perseverare non perché ci stiamo divertendo, ma perché ormai abbiamo investito…e continueremo a farlo sempre di più!

I meccanismi legati alla progressione invece hanno a che fare con il raggiungimento graduale degli obiettivi: se la barra relativa alla costruzione di un nuovo edifico è quasi completata, sarò motivato nel continuare a giocare e rinnovare il mio impegno. Questo è il pane quotidiano di molti RPG, ed infatti anche nei vari “farm games” troviamo i livelli del giocatore.

Ci sono poi le ricompense, che possono arrivare ad intervalli imprevedibili quando clicchiamo o essere promesse se torneremo attivi, allo stesso modo dei drop negli MMO. In questo modo saremo sempre tentati di giocare o ricollegarci ancora un minuto nella speranza di chissà quali doni.

Ma sono anche e sopratutto l’uso di meccanismi sociali ad aver fatto la fortuna di questi giochi. Chi non ricorda di aver ricevuto inviti, anche parecchio insistenti, a collaborare con un con un nostro parente o amico per raccogliere l’ennesima risorsa? Si corre il rischio spesso concreto di infastidire qualcuno pur di accelerare processi in un gioco basato sull’attendere. E quando il successo arriva, ecco che ci viene proposto di esibirlo nei nostri spazi personali, dando quantomeno pubblicità gratuita.

Fattorie di click

Insomma, se le meccaniche sono già viste, perché tanto astio verso i vari farm?

Per prima cosa il fatto che siano giochi in background amplifica la mancanza di controllo dell’utente e introduce una pressione temporale. Quando non sono collegato al gioco questo continua ad andare avanti, mentre io perdo benefici e i miei investimenti vanno a male. Al tempo stesso i miei “vicini di fattoria” prosperano, la loro erba è davvero più verde, e non perderò l’occasione di vederlo dai loro profili social. Probabilmente sono le stesse persone che mi hanno spinto a diventare uno stressato contadino virtuale con una richiesta apparentemente innocente.

Eppure questi principi sono talmente efficaci che neanche ridurli ai loro meccanismi più basilari e alienanti sembra fermali. E’ quanto ha tentato di fare Ian Bogost, videogame designer del Georgia Institute of Technology, rilasciando Cow Clicker.

Cominciate con una mucca, ci cliccate sopra, ottenete un bel muggito e fatelo sapere a tutti i vostri contatti. Il vostro contatore di click ora è salito di una unità. Ora aspettate sei ore per poter cliccare di nuovo, o pagate per accorciare i tempi. O invitate mucche di amici nel vostro pascolo per poter guadagnare altri click, convertibili in “splendide” ricompense. Ah, e per venti dollari (reali) potete acquistare una mucca che guarda in un’altra direzione, un vero affare insomma.

Nato come forma di protesta, questo progetto volutamente stupido raccolse decine di migliaia di giocatori, pronti anche a spenderci denaro. Neanche le sfide sempre più assurde poste del creatore, con prezzi folli per oggetti che potevano essere persi casualmente, riuscirono a dissuaderli. Venne infine la minaccia della “muccapocalisse“: ogni pressione  portava avanti un conto alla rovescia verso l’annientamento dei bovini, rinviabile solo con offerte in denaro. Dopo un anno e mezzo dal debutto, le mucche lasciarono gli schermi, con gente che continuava a cliccare nel vuoto, lamentandosi di come il gioco non fosse più divertente. La riposta di Bogost fu decisamente onesta: “non era tanto divertente neanche prima :)”

La realtà ha superato la parodia…e continua a farlo. Un ottimo esempio è “My Name Is Mayo”, dove saremo impegnati a premere ripetutamente una confezione di maionese per poter sbloccare decorazioni varie e trofei da esibire. Tutto qui, e si paga per questo.

Gioco delegato

Possiamo mettere da parte gli aspetti più palesemente anti-ludici su cui si basano molti questi prodotti e guardarli in una luce più positiva? E’ quanto ha provato a fare Sonia Fizek con il concetto diinterpassività. Queste opere sarebbero un nuovo genere videoludico, dove la partecipazione dell’essere umano è spesso opzionale o ridondante. L’autrice da un esempio decisamente più apprezzato dalla comunità come “Dark Room” in cui le prime azioni ci permettono comunque di acquisire risorse che automatizzeranno il gioco nelle mosse future. Ancora più audaci, titoli come Everything possono funzionare senza alcun contributo del giocatore. Diventiamo spettatori, testimoni, dello svolgersi di interazioni fra meccanismi.

Alcune posizioni arrivano a sostenere la liberazione dalla schiavitù del click, non a caso l’ultimo elemento rimasto nei farm games, con la sua interattività illusoria in una prigione di stimoli predeterminati. Possiamo quindi riscoprire un gusto per la contemplazione che ha sempre accompagnato l’uomo di fronte alla tecnologia che automatizza i compiti ripetitivi ad essa delegati. Precursori potrebbero essere allora l’uso delle macro negli MMO, i giochi/film alla Heavy Rain.

Mi viene da aggiungere a questo punto il piacere che proviamo quando nei gestionali e nei simulatori di crescita tutto funziona a dovere, e ci perdiamo nei dettagli e negli equilibri dei complessi mondi che abbiamo creato. E’ una di quelle che vengono definite esperienze trascendenti, qualcosa che difficilmente viene associato ai videogiochi. L’inazione diventa contemplazione, non una attesa da riempire pagando.

Bibliografia

Fizek, S. (2018). Interpassivity and the joy of delegated play in idle games. Transactions of the Digital Games Research Association3(3).

Seife, C. (2015). Le menzogne del Web: Internet e il lato sbagliato dell’informazione. Bollati Boringhieri.

Lewis, C., Wardrip-Fruin, N., & Whitehead, J. (2012). Motivational game design patterns of ’ville games. Proceedings of the International Conference on the Foundations of Digital Games – FDG 

Alharthi, S. A., Alsaedi, O., Toups, Z. O., Tanenbaum, J., & Hammer, J. (2018, April). Playing to wait: A taxonomy of idle games. In Proceedings of the 2018 CHI Conference on Human Factors in Computing Systems (p. 621). ACM.

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