Se c’è una cosa davvero insensata e assurda che ho fatto qualche anno fa, è stata quella di nascondere un passatempo, come se fosse una vergogna per me e soprattutto per non sentirmi ridicolizzata davanti agli altri. Avevo paura del giudizio, delle risatine, di essere marchiata come un personaggio “strambo” o, addirittura, infantile.
Solo perché sono arrivata alla soglia dei 30 anni, sono una psicologa e, sì, gioco ai videogiochi.
L’hobby dei videogiochi l’ho lasciato vivere “sotto la sabbia”, come si suol dire, per tanto tempo. Quando mi descrivevo a qualcuno ai miei primi appuntamenti, oppure quando dovevo compilare la scheda delle mie passioni su un forum online, i videogiochi non erano minimamente contemplati. Cinema, musica… quelli sì, sono largamente accettati. E’ normale che una ragazza adolescente sia appassionata di musica oppure del cinema di Tarantino; anzi, più il tuo amore per la musica o i film va a ricercare l’artista più oscuro, il titolo più nascosto nei cinema d’essai, più cresce il tuo prestigio e la tua competenza in un determinato settore.
Per i videogiochi questo non avviene.
Quando mi capitava di parlare di videogiochi, ne parlavo come se fosse un aspetto marginale della mia vita e non totalizzante. Ho sempre cercato di bilanciare lo studio, gli amici e i videogiochi nella mia vita e, con mio grande stupore, i tre aspetti hanno convissuto in totale armonia. Tuttavia, devo riconoscere che non molti sono stati clementi con me, alcuni mi hanno guardato male, altri ancora si sono stupiti di come potessi ancora spendere 60 euro per un videogioco alla mia età.
Mi sono rifugiata in vari gruppi di appassionati online ma, anche lì, con mio grande dispiacere, ho trovato un secondo stigma che, pari al primo, è ingiusto ed insensato: essere una ragazza videogamer.
Insomma, parlare di videogiochi è uno stigma sociale con l’aggravante, per noi, di essere anche delle ragazze.
Di stigma nei videogiochi ne parla accuratamente lo psicologo clinico Alexander Kriss nel suo libro “Universal Play: How Videogames Tell Us Who We Are and Show Us Who We Could Be” (Robinson, 2019). Kriss fa un excursus storico e sociale che parte proprio dalla sua infanzia, un grande appassionato di videogiochi, fino all’inizio della sua carriera professionale, la descrizione di alcuni eventi importanti come il Gamergate nel panorama videoludico e la descrizione di alcuni case studies che ha incontrato nella sua pratica clinica. Il suo racconto parte proprio dalla “stigmatizzatione” da parte di alcuni suoi colleghi, di un ragazzo con problemi familiari e relazionali, incapace di saper gestire le sue emozioni, bollandolo come “gamer kid“. E’ un gamer compulsivo, citano i colleghi, dobbiamo disabituarlo all’uso intenso dei videogiochi, è proprio quello il motivo del suo essere problematico.
Kriss, dal canto suo, non riesce a pensare in questi termini – avendo alle spalle ore ed ore su Myst e Silent Hill 2 – e decide di prendere in cura questo ragazzo.
E’ ormai un pensiero talmente radicato nelle nostre vite che abbiamo dimenticato quando l’opinione pubblica ha iniziato a recitare la solfa, fine a se stessa, “i videogiochi fanno male e sono pericolosi“.
Ciò che scatenò la stampa e l’opinione pubblica fu il massacro alla Columbine High School nel 1999 a opera di due studenti che, alla fine dell’eccidio, si son tolti la vita. Dai loro blog online traspariva il loro interesse verso Doom, storico sparatutto uscito nel 1993 in cui devi uccidere orde di demoni e non morti. L’equazione fu semplice: i videogiochi rendono violenti; dopo il 1999 l’APA (American Psychological Association) registrò più di 200 articoli scientifici sul tema. Se è pur vero che alcuni articoli dimostrano una significativa correlazione tra l’aumento dei videogiochi violenti e la crescita della delinquenza giovanile negli Stati Uniti, è pur vero che bisogna – in quel contesto – modificare anche le leggi sul porto d’armi e garantire, ai ragazzi, un giusto reinserimento sociale. I dati sulla violenza scaturita dall’uso dei videogiochi è in ogni caso minore rispetto a quelli di violenza domestica dovuta dall’abuso di alcol e droghe.
La chiave non è nel videogioco, ma nelle caratteristiche di ognuno di noi.
Ritornando al case study presentato da Alexander Kriss nel suo libro, il “gamer kid” in questione, Jack, non ha un buon rapporto con la sua famiglia d’origine, vive facendo lavoretti part-time, ha lasciato la scuola e sogna di fidanzarsi con un’amica del liceo che, tuttavia, non riesce a corteggiare. Jack si sente inadeguato e sbagliato nella società, non ha amici e non si sente in sintonia con i suoi fratelli. Da qualche tempo ha trovato un po’ di pace giocando a Mass Effect, il primo della trilogia, uscito nel 2007.
In Mass Effect, Jack si ritaglia il suo spazio privato, è incredibilmente capace di gestire le sue relazioni, le negoziazioni con diversi personaggi della galassia, nei panni del Comandante Shepard ha relazioni amorose, seppur virtuali, e – parlando di gameplay – è un ottimo videogiocatore, con grande capacità di controllo, pianificazione. Quindi, la domanda ricorrente di Kriss durante tutto il trattamento psicoterapeutico è stata questa: “Perché condannare un ragazzo che gioca ai videogiochi? Perché togliergli il videogioco quando lì dentro, in quel mondo, ha tutte le qualità per fare la differenza? Perché invece non insistere con queste qualità e pian piano rivolgerle verso la vita reale?“. L’idea di Kriss è semplice: non bisogna inventare nulla, bisogna far uscire delle competenze che Jack già possiede, in Mass Effect. Perché avviene questa disparità?
Per Winnicott, giocare è sinonimo di fare. Il bambino quando gioca apprende, sperimenta e del suo gioco ne fa esperienza, è una terapia. Tramite l’atto di giocare il bambino usa la sua fantasia, è il padrone di quel mondo: internamente decide delle regole, le rispetta, le rompe quando decide di non giocare più nel suo “cerchio magico” (come Huizinga definiva lo spazio del gioco in Homo Ludens, 1939). L’incontro-scontro tra fantasia e realtà forma il bambino, genera l’esperienza. Tollerare la frustrazione della realtà senza perdere l’abilità di fantasticare, aggiunge Kriss, è uno step verso la crescita.
Quello vissuto da Jack – un ambiente familiare caotico dove non esiste una privacy – è l’instabilità tra l’ambiente reale e la fantasia suddetta. Per questo è necessario, per Jack, riappropriarsi del suo diritto a fantasticare e, da questa, farne esperienza. Durante una sua sessione notturna in Mass Effect, la sua tranquillità viene scossa dal rientro a casa di suo fratello che, ubriaco, gli urla di spegnere tutto perché vuole vedere la TV. Jack reagisce in maniera violenta ed esagerata non perché è il videogioco a farlo diventare tale, ma è la pretesa del fratello ubriaco, è l’intrusione in uno spazio intimo dove lui è sé stesso. Il ragazzo veniva additato come violento ed instabile per via della troppa esposizione ai videogiochi ma che, paradossalmente, erano proprio questi che riuscivano a calmarlo e distrarlo da un ambiente familiare non così sano. Sarà poi un buon trattamento portarlo a rielaborare le sue skills dal videogioco alla vita reale.
I videogiochi (e i giochi in generale) simulano il nostro reale potenziale: ciò che possiamo essere e come ci si potrebbe sentire ad essere così. Ci permettono di vivere vite infinite e fare esperienza di parti differenti di noi stessi (con il role-play), aspetti che ci sembrano inaccessibili o travolgenti. E’ bene pensare che, malgrado gli aspetti positivi dei videogiochi, nessun bravo terapeuta “prescrive” dei videogiochi a cui giocare; è fondamentale capire, invece, che i videogiochi hanno i loro aspetti positivi ed è necessario, ora che i videogiochi sono diventati dei blockbuster dell’intrattenimento, scrollarsi di dosso un ridicolo stigma.
Un giorno non sarò più costretta a nascondere uno dei miei passatempi più grandi e mi piacerebbe continuare a fare ciò che faccio ora, ribadire con fierezza che mi piacciono i videogiochi e che, quando ho un po’ di tempo libero, mi piace abbandonarmi nelle loro storie, sviluppare il mio problem solving, mettere alla prova i miei riflessi, oltre a tanto sano divertimento. Rinchiudermi nella mia fantasia, citando Winnicott, e farne esperienza.
Perché alla fine si tratta solo di una cosa: essere felici.
Bibliografia:
– Alexander Kriss – Universal Play: How Videogames Tell Us Who We Are and Show Us Who We Could Be (2019, Robinson UK)
– Donald W. Winnicott – Gioco e Realtà (1971)
Sitografia:
– Gaming is still stigmafied (https://bold.expert/gaming-is-still-stigmatized/)