“Talvolta creare Hype è un’arma a doppio taglio: spesso la realtà non combacia con la nostra aspettativa“.
In un suo recente articolo, la mia collega Elena del Fante ci lasciò queste parole che in maniera tanto sintetica quanto esaustiva ritraggono la comunicazione videoludica e di marketing delle varie case produttrici e di distribuzione. Negli ultimi anni, accostato a questa montagna russa chiamata Hype, si colloca un altro fenomeno, quello che porta a giudicare un videogioco ancora prima di averlo giocato. Il più delle volte negativamente.
Com’è possibile che, ancor prima di aver messo mano su un videogioco, sempre più persone si sentano in diritto se non addirittura in dovere di esprimere un’opinione critica, magari con la pretesa di profetare verità assoluta?
Ancora una volta, qualche elemento di psicologia può aiutarci a indossare le lenti giuste per leggere correttamente ciò che abbiamo di fronte.
I social network hanno dato sempre più possibilità a tutta la popolazione digitale di mettere su piazza pubblica le proprie idee, opinioni e valutazioni, argomentate o meno che siano. Seppur con l’intenzione di rendere democratico ogni argomento di dibattito, si sono sviluppate online delle dinamiche che ben più raramente vedremmo in un contesto face to face, per diversi motivi. Proviamo a vederne qualcuno insieme.
1. Il Social Network
Zona franca del mondo informatizzato, il social network è una piattaforma che gli utenti percepiscono per sua natura come un luogo in cui le azioni non portano conseguenze; un commento può sempre essere modificato o cancellato, il mio agire tramite avatar mi concede il favore dell’anonimato o della scarsa identificabilità (o comunque io non sono il mio account, per cui recepisco un certo distacco dall’azione stessa che sto compiendo), seppur il discorso rimanga su un piano essenzialmente illusorio. Faccia a faccia, chi si porrebbe in modo così aggressivo come si vede sovente fare su Facebook?
2. Appartenenza
Maslow nel 1954 capì che l’essere umano agisce per soddisfare dei bisogni e che tra questi, soddisfatti quelli di base, c’è anche il bisogno di appartenenza.
La nostra appartenenza a un gruppo ha da dire su chi siamo o chi vorremmo essere; ci permette di provare sensazioni piacevoli e di appagamento, di perseguire una realizzazione identitaria che permette al nostro Io di percepirsi vivo, di dare senso alla propria esperienza nel mondo. In più, tornando al punto 1 questa appartenenza sui social può essere visibile, e questa visibilità può rafforzare ulteriormente questo benessere collegato all’appartenere a un qualcosa di più grande. Tanto più che proprio perché la nostra presenza è attestata unicamente dalle interazioni del nostro account, laddove l’ambito è importante per sé prevarrà la propria identità sociale (Tajfel, 1974), il proprio esistere in rapporto a quella “fazione” di cui entro a far parte esprimendo il mio parere su un hot topic. Se voglio dimostrare che esisto, devo dire qualcosa; se voglio dimostrare di essere dalla parte giusta, devo pretendere di avere ragione.
3. Narcisismo
Alcune ricerche scientifiche, tra cui quella pubblicata da Christopher J. Carpenter nel 2012, sottolineano che in social come Facebook determinati comportamenti sono riconducibili ad alcuni tratti di personalità. Ma non fraintendetemi, non è un tentativo di diagnosi. Seguite il ragionamento. Essendo Facebook un luogo dove, come abbiamo detto, la mia possibilità di espressione senza percepire conseguenze non vede confini, dove quel che dico arriva a chi conosco di persona forse in misura ancora minore rispetto a quegli “amici” che conosco solo online, questo social si mostra come un’occasione per far emergere tratti di personalità, non per forza patologici ma che sono presenti in tutti gli esseri umani in misura più o meno forte, che si accostano al narcisismo. Infatti Carpenter individua tra le forme più ricorrenti su Facebook il narcisismo caratterizzato da Esibizionismo Grandioso, per l’autore correlato con vanità, superiorità e tendenze esibizionistiche. Suona familiare?
4. La limitatezza della cognizione umana
L’essere umano si percepisce come essere prevalentemente razionale anche se, come dimostrano i bias cognitivi individuati da Tversky e Kahnemann (1972, 1973, 1974, 1981, 1991, 2013) o da Ropeik (2002) e la teoria della razionalità limitata di Simon (1990), non è così.
Infatti, la nostra mente usa diverse scorciatoie per organizzare in modo comodo la percezione che ha del mondo circostante, così da farsene una rappresentazione più velocemente ed essere in grado di interagirvi. In particolare, per comprendere come mai sempre più persone abbiano la spinta a esprimere giudizi su ciò che ancora non ha esperito direttamente, è necessario tenere presente due elementi:
- L’effetto Dunning – Kruger: bias cognitivo secondo cui una persona con scarsa conoscenza o abilità in un ambito si percepisce più competente di quel che è. Una sorta di illusoria superiorità.
- La razionalità limitata e l’illusione del sapere che ci porta, seguendo un ragionamento più che coerente, a pensare che le informazioni di cui disponiamo siano la totalità delle informazioni disponibili su quell’argomento. In breve, siamo convinti che quel che sappiamo su un tema sia tutto quel che c’è da sapere.
E come potrebbe essere altrimenti. Se ci pensiamo, questi meccanismi sono gli stessi che un tempo ci hanno permesso di sopravvivere senza rimanere intrappolati in una paralisi di incertezza e paura.
Polarizzazione videoludica
Tornando all’inizio, una volta che allo State of Play, E3 o fiera di turno in cui vengono presentati i trailer di lancio dei giochi che dovranno uscire nell’anno a venire (e se siamo fortunati qualche bozza di gameplay), il minuto dopo internet si infiamma di commenti scettici, estremamente positivi o estremamente negativi. Non perché siano le uniche posizioni possibili da prendere, ma perché l’hype dell’attesa di una qualche notizia al riguardo ha generato tanta di quella tensione da doverla scaricare in qualche modo.
E i fattori in gioco, tra cui quelli visti insieme, fanno sì che le persone si sentano in diritto, se non in dovere, di dire la propria su come sarà il gioco, quanto venderà, quanti problemi avrà e quanto è bello senza nemmeno averlo propriamente visto. Ripeto, non perché quelle siano le scelte possibili, ma perché per i fattori visti insieme l’utente medio ha la necessità di soddisfare, di fronte al nuovo stimolo complesso, il bisogno di appartenenza, il bisogno di soddisfare il proprio Io, il bisogno identitario che dia senso a sé stesso di fronte a quell’accadimento, motivo per cui non può sospendere il giudizio, ma piuttosto lo deve esprimere e rendere visibile a più persone possibile. Questa è l’origine della console war, dei pro e anti Kojima dopo Death Stranding, e lo sarà in occasione di tutti quei lanci di giochi attesi da publisher noti e non.
Fonti:
- Dunning D. (2011). Chapter five – The Dunning–Kruger Effect: On Being Ignorant of One’s Own Ignorance. Advances in Experimental Social Psychology, Volume 44, 247-296.
- Kahneman, D., & Tversky, A. (2013). Prospect theory: An analysis of decision under risk. In Handbook of the fundamentals of financial decision making: Part I (pp. 99-127).
- Kahneman, D. and Tversky, A. (1972) Subjective probability: a judgment of representativeness. Cognitive Psychology 3, 430–54.
- Ropeik D. (Winter 2002). Understanding Factors of Risk Perception. Nieman Reports.
- Simon, H. A. (1990). Bounded rationality. In Utility and probability (pp. 15-18). Palgrave Macmillan, London
- Tajfel, H. (1974). Social identity and intergroup behaviour. Information (International Social Science Council), 13(2), 65-93.
- Tversky, A., & Kahneman, D. (1973). Availability: A heuristic for judging frequency and probability. Cognitive psychology, 5(2), 207-232.
- Tversky, A., & Kahneman, D. (1974). Judgment under uncertainty: Heuristics and biases. Science, 185(4157), 1124-1131.
- Tversky, A., Kahneman, D., (1981). The framing of decisions and the psychology of choice. Science 211, 453–458.
- Tversky, A., & Kahneman, D. (1991). Loss aversion in riskless choice: A reference-dependent model. The quarterly journal of economics, 106(4), 1039-1061