Le parole sono importanti!
Qualche anno fa, dopo un mio intervento ad un evento a tema ludico, venni avvicinato da un personaggio in una sgargiante camicia Hawaiana che riusciva a spiccare anche tra le tante persone vestite in modo decisamente non convenzionale che affollavano la fiera. Fece alcune osservazioni molto precise sui termini da me usati, come la frase “solo un gioco”. E a ragion veduta, dato che stavo parlando con Rugerfred Sedda, uno che nel game design lavora ed insegna e che su parole come “divertimento” e “immersione” porta una conferenza dedicata negli eventi del settore. Ve la consiglio, dato che si può vedere su youtube oppure leggere tradotta in italiano su storie di ruolo .
E ancora oggi mi fa pensare a quanto quel “solo un gioco”, detto in un contesto in cui non se ne metteva affatto in dubbio il potenziale, diceva molto sul rapporto che abbiamo con questa pratica. Ne parliamo, la valorizziamo, ma spesso teniamo a distanza il suo potenziale.
Questo mio articolo vuole essere un piccolo contributo rispetto alle parole che usiamo parlando di videogiochi, partendo da chi le studia e le mette in discussione.
Divertirsi, immergersi… tutto qui?
Trovo che le argomentazioni di Sedda siano interessanti su più livelli anche per il mondo videoludico. Se in forme di gioco “analogico” come il LARP sembra esserci nella comunità una forte riflessione rispetto al valore delle proprie esperienze, nel videogioco questa può assumere forme non sempre lucide. E che spesso vanno a incagliarsi proprio nei soliti aggettivi “divertente” e immersivo.
“Divertimento”, osserva, è una di quelle parole talmente abusate che rischia di non voler dire nulla o di diventare l’equivalente di “bel gioco”. Mettendo mano al dizionario possiamo vedere come derivi dall’allontanamento, come implichi il “divergere” da qualcosa: una esperienza che serve per distrarre da altro più che avere valore in sè.
Abbiamo parlato spesso di come nell’esperienza di gioco possiamo sperimentare molti vissuti, non per forza legati a quelli che chiamiamo “emozioni positive”. Eppure questo non li rende “brutti” o poco significativi, anzi! E’ il caso dell’game design abusante che sfida apertamente il nostro rapporto con l’opera e l’autore. Possiamo apprezzare giochi che hanno a che fare con esperienze drammatiche, proprio perchè ci permettono di esplorarle.
Se vogliamo vedere riconosciuta la maturità del medium videoludico, se parliamo spesso di come possa essere arte, come dice Sedda per il gioco in generale non possiamo considerarlo solo orientato a un “divertimento” inteso come intrattenimento.
L’altra parola, “immersione”, è rilevante parlando di videogiochi, che nella loro storia hanno si sono spesso proposti in mondi “altri” in cui appunto immergersi anche grazie agli ultimi sviluppi di grafica e VR. Anche qui dice Sedda rischiamo di avere una parola-contenitore, come alternativa propone il termine “coinvolgimento”, facendo riferimento al modello proposto da Gordon Calleja proprio in ambito videoludico.
Abbiamo quindi sei aree diverse di coinvolgimento, che vanno dal cinestesico (come quando ci troviamo a far oscillare il controller mimando il salto nei platform), all’investire nella narrazione o nelle situazioni che si creano con gli altri giocatori, fino al coinvolgimento affettivo che chiama in causa le emozioni. Questo implica che il gioco può offrirci le sue meccaniche ma nel giocare queste possono incontrarsi o meno con quello che noi cerchiamo e nell’uso che ne facciamo.
Anche in questo caso avere un linguaggio differenziato rispetto a come i mondi virtuali ci coinvolgono è molto utile per capire ad esempio il ragazzino che gioca al controverso Fortnite non tanto per “giocare a uccidere” ma perchè passa del tempo con i suoi amici a confrontare balletti e skin. E sono proprio diverse forme di coinvolgimento a essere al centro di discussioni sulla loro legittimità: possiamo ed esempio faticare a considerare “vero” videogioco quello dove si clicca solo per far andare avanti una storia, ma che può avere un fortissimo coinvolgimento narrativo.
Separati, ma quanto?
Ora ci terrei a far notare come i due termini facciano riferimento a qualcosa di altro verso il quale diverto e mi immergo. Prospettiva non del tutto falsa, dato che nessuno equiparerebbe del tutto una esperienza simulata ed una reale, sia essa partecipare ad uno scontro a fuoco o gestire una fattoria. Come fatto notare dallo stesso Calleja a partire dalla nozione di “cerchio magico” di Hunziga si è sempre più sottolineata la distinzione tra il mondo “ordinario” e il gioco. Ma questo a scapito di una continuità che è un punto di vista sempre più utile quando entra in scena il digitale.
Il confine nello spazio e nel tempo resta solido, i colpi di arma da fuoco (per ora) non ci crivelleranno attraverso lo schermo. Ma non è così assoluto. Le nostre proprietà in mondi virtuali possono essere comprate con valute del tutto reali. Oppure vinte in eventi a tempo ai quali dobbiamo allinearci per non perdere opportunità. A livello spaziale abbiamo tutte le applicazioni cinetiche che chiamano all’azione in prima persona e le forme di di realtà aumentata che ci portano a interagire con spazi dove la finzione è ben presente. Pensiamo all’impatto avuto da Pokemon Go sui luoghi diventati meta di allenatori più o meno graditi.
C’è poi la distinzione esperienziale, l’idea che l’essere in gioco implichi atteggiamenti diversi da quelli della “vita reale”. Eppure sappiamo bene quanto molte dinamiche che emegono siano piuttosto in continuità. Il giovane giocatore di fornite che abbiamo citato può comprare skin che hanno un valore perchè agli occhi del suo gruppo di amici. Se è vero che nel videogioco il “facciamo che” è limitato dalla programmazione (anche se non mancano le eccezioni, pensiamo alle mod), ci portiamo facilmente “dentro” qualcosa di noi che colora le nostre esperienze. C’è chi anche con l’avatar cattivo proprio non riesce a fare il malvagio, o trova nelle cifre dei gestionali un bisogno di controllo che manifesta anche nel quotidiano.
La continuità tra gioco e vita quotidiana, più che una demarcazione netta tra gioco e non gioco, è qualcosa di familiare a molti. Il “cerchio magico” nel digitale è permeabile, o forse lo è sempre stato più di quanto ci piaccia ammettere. Resta molto diffusa, per usare le parole di Calleja, la metafora della “sommersione del partecipante dentro l’ambiente virtuale, una soggettività pensante versata in un recipiente che contiene“. Immersione dunque in qualcosa che deve farci divergere dal quotidiano, sottolineando i confini.
E’ siano stati anche i videogiocatori, anche per proteggere il medium accusato di cattive influenze, a portare avanti questa narrazione. Ma se vogliamo rendere conto della sua complessità risulta oggi poco sostenibile. E la vediamo esplodere quando ci si scaglia contro titoli che portano contenuti considerati “politici” nel senso più ampio del termine, piuttosto che con esperienze di “distrazione”.
Empatia, ma davvero?
Il mercato del videogioco ha quindi da un pezzo superato l’attenzione esclusiva al “divertimento” inteso come evasione. Tra i termini usati (Iacovides & Cox 2015)è quello di “giochi critici” rispetto ad alcuni aspetti dell’esperienza umana, oppure rifacendosi all’arte più in generale le “esperienze serie” che possono essere sgradevoli o intrattenere senza essere per esclusivamente divertenti.
Non è però del tutto chiaro quanto queste esperienze si traducano in messaggi fatti propri da chi gioca. Viene spesso citato il concetto di empatia, la capacità di fare esperienza dal punto di vista dell’altro. Un messaggio visto come “positivo” e contrapposto alle presunte influenze negative a cui i videogiochi sono stati spesso associati. Sarebbe facile applicarlo, se non avessimo appena detto quanto problematica possa essere l’idea di una “immersione”. e quanto di noi comunque resti.
E’ una critica che viene portata fino alle sue massime conseguenze da Ruberg (2020), e che ci riporta ancora ai diversi tipi di “immersione” e di ingaggio affettivo che il videogioco può portare.
La retorica dell’empatia, sostiene l’autrice, può pur essendo ben intenzionata può promuovere l’appropriazione e il consumo delle esperienze di marginalità che vorrebbe rispettare. Ci consente di fare “turismo identitario” digitale: vestiamo per gioco in panni di qualcuno che non ha il privilegio di poterne uscire facilmente una volta spento lo schermo. Più che un “capire e condividere” può diventare un “invadere e occupare” l’esperienza dell’altro, trasformandola in qualcosa di edificante per chi non la vive. E dimenticarla subito dopo nella rassicurante routine del nostro titolo preferito, sentendoci però persone migliori.
Anche Ruberg ci propone termini alternativi. In particolare compassione, intesa come il “vivere con” le esperienze presentate. Diventano qualcosa che gli autori condividono con noi e dal quale non è sempre possibile “uscire” facilmente.
La continuità ancora una volta, il “cerchio magico” non così distinto sembra una caratteristica del medium videoludico nella sua massima espressione. Resta da capire quanto possiamo e vogliamo dargli spazio in queste sue manifestazioni. Ritengo che allargare i confini dei concetti che usiamo per parlarne possa essere un buon punto di partenza.
Bibliografia
Ruberg, B. (2020). Empathy and Its Alternatives: Deconstructing the Rhetoric of “Empathy” in Video Games. Communication, Culture & Critique, 13(1), 54-71.
Calleja, G. (2012). Erasing the magic circle. In The philosophy of computer games (pp. 77-91). Springer, Dordrecht.
Iacovides, I., & Cox, A. L. (2015, April). Moving beyond fun: Evaluating serious experience in digital games. In Proceedings of the 33rd annual acm conference on human factors in computing systems (pp. 2245-2254).