Mai come in questi anni abbiamo potuto osservare nella società cambiamenti così veloci e repentini da rendere difficile tenere il passo. Non solo la pandemia, con tutte le sue conseguenze, ha generato dubbi e incertezze sul futuro della società, ma anche piccole e velocissime novità, come gli NFT, stanno prendendo piede senza che la maggior parte delle persone sappia davvero di cosa si tratta. In questo articolo voglio provare a compiere una riflessione su ciò che dobbiamo aspettarci dal futuro dei videogiochi e cosa dovremmo chiedere a essi.
È passato ormai un anno dal lancio delle console di nuova generazione e i recenti TGA hanno confermato che lo sguardo che viene rivolto globalmente è sempre solo alle grandi produzioni o a quelle che hanno successo economico. Sì perché anche in un anno nel quale di grandi produzioni ce ne sono state veramente poche, l’attenzione rivolta ai molti e interessanti titoli “indie” usciti nel corso del 2021 è stata davvero risibile. Per non parlare degli scandali che, con sempre più frequenza, vengono fuori minando la credibilità di un settore in difficoltà per molteplici motivi diversi.
Cerchiamo di compiere insieme questa riflessione sul futuro dei videogiochi sperando di essere smentiti nelle ipotesi più cupe.
È Arte è arte, ma la mettiamo da parte
Il primo concetto che voglio proporvi è quello relativo al videogioco come arte. Chi mi segue qui su Horizon o su Plenoctis sa quanto io tenga a far rientrare il videogioco (che chiamo appunto Opera Videoludica) all’interno dell’Arte. Non per una questione meramente di bellezza, come molti tengono a fare e dire, quando affermano “Certi videogiochi sono arte”, “Questa è poesia” , “Un quadro in movimento” e banalità simili che finiscono sempre con l’evidenziare come non si voglia mai compiere una vera riflessione in merito. La sostanza di questi tipi di discorso, a prescindere dai vari giri di parole con i quali li si esprime, è solo il dire che alla fine è tutta una questione di gusti e che l’arte è soggettiva e qualunque cosa può esserlo. (Quindi niente è arte). Il problema non è evidentemente di facile soluzione, la storia dell’Estetica, anche in campo accademico ha visto avvicendarsi teorie vaghe e circolari, estreme e parziali senza che si riuscisse a ben definire cosa fosse Arte. Figuriamoci quindi avere chiaro in mente come possa il videogioco rientrare in essa. Mettendo in pausa questa riflessione, per il momento e per questi spazi, il motivo per cui faccio rientrare i videogiochi nell’Arte è perché semplicemente hanno tutti i canoni per esserlo. Approfondirò questo discorso in un’altra sede. Quello che è necessario rilevare è che tanto la Critica o i giornalisti, quanto gli stessi produttori/sviluppatori sembrano non avere a cuore questo concetto.
È facile aspettarselo da un publisher che, a livello aziendale, tratta tutto come un prodotto da vendere e piazzare molto spesso sulle spalle di artisti e sviluppatori costretti al crunch o a modifiche pesanti della loro visione creativa. Il problema si ha anche quando la critica si disinteressa totalmente del valore reale del gioco per inseguire le fantasie soggettive e/o utilitaristiche che non dicono nulla sull’Opera. Semmai sul giocatore stesso, ma a questo punto tutti sono critici e non esiste la critica.
Dare un giudizio negativo, far pesare i problemi, studiare a fondo un’opera, analizzarla, indagarla, prendersi del tempo per uscire con la recensione (che è il giudizio critico di valore e non un consiglio per gli acquisti) sono tutte soluzioni che spesso non vengono eseguite sia per incapacità e sia perché la necessità economica-aziendale è quella di arrivare primi. Per non parlare della mole di ragazzi spesso volenterosi, anche se non con grandi capacità critiche, utilizzati come bestiame per produrre news click bait a ritmo forsennato. Ciò non fa bene al discorso sul videogioco e non fa bene ai videogiochi stessi. La colpa è anche del pubblico che fagocita le opere come se fossero cibo in un sistema cronofagico (F.Toniolo) che fa loro perdere tempo, specialmente se non si attribuisce a esso e ai videogiochi vero valore.
Uno degli obiettivi del futuro deve essere quello di premiare la qualità, la meritocrazia, il valore, la profondità. Questo si può fare benissimo in un discorso corale che spesso è appannaggio solo dei piccoli e poco visibili, quando i grandi si fanno la guerra per una manciata di click e visibilità e per mantenere un certo ideale di posizione e identità. Il logos sul videogioco è ampio e profondissimo ma se decidiamo di scalfirne solo la superficie perché al pubblico basta quella, dell’Arte a noi non frega davvero nulla.

Lo scandalo che ha coinvolto Activision Blizzard è l’ennesimo nel mondo dei videogiochi
Sono fuori dal tunnel…del Capitalismo
“È tutta colpa del Capitalismo”. Quante volte sentiamo questa espressione per definire e giudicare le storture del mercato, anche in ambito videoludico. Questa affermazione è certamente vera, ma non si può risolvere la vastità dei problemi che il mondo videoludico ha, semplicemente dando la colpa a un sistema che in un senso non si conosce e nell’altro è troppo vasto, multiforme e articolato per poter essere infine rappresentato da una singola definizione. Quello che è certo è che, a livello basilare delle relazioni fra gli umani, di cui il capitalismo è solo una categorizzazione posteriore, il tentativo di massimizzare il guadagno con il minor sforzo c’è sempre. Questo significa non soltanto sfruttamento (e quindi Crunch), scelte artistiche discutibili e tutto il sistema delle relazioni giornalistiche, ma anche un lassismo etico che fa posporre sempre la riflessione ai dettami del profitto economico. Anche qui poi, la società tende a declinare il problema attribuendo alla sfera etica la connotazione soggettiva e relativa, lavandosi la coscienza da un giudizio reale e di impatto che in questo senso è impossibile.
E laddove invece la forza mentale e etica dell’individuo riesce a essere forte è davvero molto difficile capire dove la ragnatela di dinamiche e relazioni che il sistema tesse fra tutti i suoi partecipanti, lasci margine di manovra e critica. Una cosa che il capitalismo fa molto bene è quella di produrre esso stesso la propria critica affinché sia contemporaneamente depotenziata e controllata. I soggetti coinvolti in questo sono molto spesso o ignari o conniventi e lo spreco di risorse materiali, fisiche e mentali è enorme. Anche qui si dovrebbe predicare la compattezza di settore ma molto spesso tutto viene declinato in chiacchiere sterili e autoconclusive, che probabilmente fanno sentire dalla parte dei “buoni” ma che in pratica non risolvono nulla. In più, anche quando ci sono delle critiche forti e giuste dobbiamo chiederci se esse siano parziali o unilaterali, arrivate più per ragioni politiche contingenti che per reale volontà di Giustizia. In Italia e dall’Italia è molto difficile avere uno sguardo chiaro sul mondo dato che rappresentiamo un mercato molto piccolo e davvero poco influente. Nuovamente basta vedere il peso che il nostro paese riveste in tutte le celebrazioni dell’industria videoludica come i TGA. A noi arriva solo il riflesso e molto spesso è dovuto a uno specchio posizionato ad hoc per mostrarci solo un’angolazione particolare.
Tutto questo per dire che anche dal punto di vista economico-industriale il logos che si deve produrre è profondo e complesso e se si volesse davvero, eticamente e moralmente, risolvere i problemi dovremmo unire le forze e realizzare in atto quel modello che molto spesso viene declinato perché non conveniente, anche se ritenuto giusto. In un contesto del genere, però, nessuno farà la prima mossa per mettersi volontariamente in una posizione peggiore rispetto alla concorrenza, sarebbe un autogol. Chi ci ha provato era sufficientemente piccolo da non subire particolari danni e in ogni caso il tentativo non ha sortito particolare effetto, anzi.
Mi chiedo sempre quale sia il principio logico che spinge molti esponenti del settore a giustificare la situazione nella quale vivono, e fanno vivere, con l’idea per la quale “dopotutto è sempre lavoro” e ci sono persone da pagare, stipendi, famiglie ecc. A primo impatto questa visione è anche comprensibile, come potrebbe non esserlo, ma in fin dei conti si tratta di una reductio ad pecuniam per cui si fa qualcosa per i soldi, ipoteticamente qualunque cosa. Nel senso che un’attività vale l’altra. È chiaro che in questo sistema rarissimamente capita di vedere qualcuno che svolga il lavoro della propria vita, quello che davvero vuole fare. Cionondimeno l’essere umano dovrebbe seguire le proprie volontà e vocazioni e sentirsi realizzato in ciò che sceglie di fare e riconosce come proprio. È inutile e dannoso un portale, un sito, un creatore, un giornale il cui scopo non è quello di far esprimere le vocazioni di chi vi lavora ma il vile guadagno. Facesse altro anche più remunerativo. Su quale base vengono fondate infinite attività se lo scopo è solo il ritorno economico in qualunque modo. Non vale nemmeno la furba affermazione, estesa anche in altri campi, per cui certi articoli o prodotti di largo consumo e popolari, ma di deteriore qualità e dubbia moralità, permetterebbero di finanziare al contempo sia le persone che fantomatici progetti migliori. Questo tipo di ragionamento è destinato ad autoannullarsi perché se davvero si tenesse ai buoni progetti, alla qualità, alla profondità si farebbe comunque quello in partenza, non dopo anni quando il carico della coscienza e di certe spinte interne/esterne lo fanno pesare. Si dice che i film commerciali finanzino anche i capolavori e anzi siano la loro condizione di esistenza. Questa espressione è ipocrita e furba. In primo luogo perché chi produce per denaro non ha davvero interesse a fare altro e il suo destino è continuare a produrre film commerciali per incrementare il profitto. In secondo luogo perché se davvero si volesse finanziare l’arte lo si farebbe anche a livello culturale, potenziando le conoscenze dello spettatore, cercando di trainare il pubblico verso una dimensione più profonda e qualitativa.
La verità è che il pubblico è considerato alla stregua di un bambino a cui regalare caramelle, da cui ricavare qualcosa sfruttando la sua debolezza e ignoranza. Chi spinge verso la qualità e la profondità e quindi produce anche critiche forti, viene visto come quello che vuole spegnere il sorriso dai visi di questi bambini, quando al contrario, sta cercando di trainare le persone verso una dimensione migliore, che spetta loro.
Qui si arriva anche al discorso di genere e a tutta l’ipocrisia di un settore che pubblicamente sembra spendersi tanto per combattere le violenze del potere multilivello e nel privato (che diventa pubblico) è il primo a compiere atti deprecabili che diventano noti solo se qualcuno riesce a squarciare il velo. C’è tanta volontà di salire pubblicamente sul carro dei buoni, di lavarsi la coscienza nell’etere dell’internet, di mostrarsi come giusti in un momento storico in cui queste manifestazioni sono ritenute dalla società “corrette” e non perché loro le ritengano davvero tali.
L’obiettivo da iniziare a perseguire nel prossimo futuro è quello per cui il settore sia composto da persone che davvero vogliono affrontare delle tematiche in maniera profonda e qualitativa e che premino il merito e la giustizia. Che si riesca davvero a denunciare le storture in tutti gli ambiti allo scopo di migliorare tutti. È difficile? È sconveniente? Probabilmente sì ma ognuno dovrà fare i conti prima o poi con chi sceglie di essere.
N.F.T. Nel Fallimento Totale
Il discorso sugli NFT muove direttamente dal paragrafo precedente. Il mondo tutto ormai si è spostato sempre più una dimensione astratta e immateriale. Chi si meraviglia delle cryptovalute forse non sa che la moneta da moltissimi anni è puro valore creato dal nulla legittimato dal suo utilizzo territoriale o globale. In questo, qualsiasi altra forma di moneta è strettamente “equivalente”, almeno dal punto di vista di cause e funzionamento. L’economia da molti anni ha trovato nella dimensione finanziaria, nella contabilità in movimento e nella rarefazione il suo terreno privilegiato, almeno per i grandi ricchi di questo pianeta. La borsa, le azioni, la speculazione, la crisi del 2008 sono tutte conseguenze del gioco economico in atto che cerca a tutti i costi di generare un surplus di valore senza che sia minimamente fatto corrispondere alla realtà materiale e nemmeno ai possedimenti astratti dei singoli. Tuttavia, uno dei principi validi da sempre, anche per l’uomo delle caverne è che più un bene è raro, unico più cresce il suo valore. Questo perché non potendo essere diviso fra tutti, tende ad aumentare l’ipotetico contraltare che un individuo è disposto a barattare per ottenerlo. Vale banalmente anche per il cibo. Se il cibo è scarso o addirittura scarsissimo un soggetto può arrivare anche a uccidere per ottenerlo. Nella realtà economica materiale queste proprietà di unicità ce le potevano avere certe pietre preziose, certi oggetti di valore storico o le opere d’arte. Dal punto di vista dello speculatore economico non serve nemmeno essere appassionato di un’opera per decidere di acquistarla, il senso sta tutto nel suo possibile valore in termini di rarità e disponibilità a tutti gli altri.

Ubisoft sembra essere fra le prime ad aver colto la palla al balzo e aver sperimentato gli NFT nei suoi videogiochi
Non è strano quindi che a qualcuno sia venuto in mente di generare valore tramite gli oggetti astratti come fossero tutte opere d’arte uniche che qualche collezionista/speculatore può decidere di acquistare. È proprio questo, in termini più semplici possibili, l’idea alla base degli NFT. Il punto focale è che gli oggetti NFT non sono sempre opere d’arte ma qualunque tipo di oggetto astratto immaginato come unico. Il vantaggio degli NFT è che la catena di blockchain alla quale si riferiscono ne certifica questa unicità e al contempo anche il possesso.
Questo discorso applicato al videogioco ha una conseguenza particolare e una fattispecie valida anche in precedenza.
La fattispecie è che la speculazione economica sulle opere d’arte presuppone che esse siano comunque considerate “prodotto” o “merce”, cosa che è deteriore per il valore dell’Arte come Arte. Questo avviene in campo materiale da sempre e in genere fa parte di quella confusione linguistico-intellettuale per cui, come dicevamo in apertura, non si sa bene ( e non si voglia sapere) cosa sia Arte, cosa sia merce, cosa sia prodotto, cosa sia giusto fare e cosa e no e che quindi valga un po’ tutto.
La conseguenza è che sta prendendo sempre più piede l’utilizzo di NFT all’interno dei videogiochi come ricompense uniche da dare al giocatore e sulle quali attivare un compravendita smodata e “azzardata”. Il problema nodale è che potrebbe diventare valido il paradigma “giocare=guadagnare”. Esso però da un lato non significa davvero giocare perché l’atto non sarebbe libero ma vincolato allo scopo utilitaristico del guadagno, e quindi uno pseudo lavoro; dall’altro si va a minare il concetto stesso di Opera Videoludica in quanto Arte che per definizione non ha uno scopo.
Si fanno quindi convergere le due problematiche che ho evidenziato nei paragrafi precedenti: lo status di opera d’Arte del videogioco, distante dal mero prodotto economico e le storture di un sistema che invece agisce unitariamente solo per il profitto.
È presto per parlare di quale impatto possano avere gli NFT nel mondo dei videogiochi. Si può prevedere, perché in parte già avviene, l’utilizzo come skin, premi, armi ecc. ma da qui a dire se avrà ripercussioni nella vita del giocatore e nel come si potrà approcciare il videogioco la strada è ancora molta. La speranza è quella di non vedere le opere minate dalle speculazioni e fruite per la speculazione. Se proprio si deve si creassero ambienti di gioco appositi categoricamente separati dall’Arte, ma sia ben chiaro non ci sarebbe comunque nulla di buono.
L’eclissi
C’è una vena di evidente pessimismo in questo articolo, anche se come spesso succede i pessimisti sono solo ottimisti realisti, desiderosi di luce nuova che rischiari la notte profonda dello spirito ma non certo ciechi di fronte alla realtà dei fatti che spinge in tutt’altra direzione. La difesa del videogioco come Arte passa anche attraverso la consapevolezza che il percorso è molto difficile e irto di pericoli sia esterni che interni. L’obiettivo, poi, è il più complesso di tutti perché non strettamente materiale. La conquista, si potrebbe dire, è in campo spirituale, intellettivo. È trainare il pubblico verso un futuro di profondità, di qualità e intrinsecamente di bellezza. Quella “Kalokagathia” con i quali i greci sintetizzavano meravigliosamente la bellezza estetica e quella morale.
O per dirla in termini più vicini a noi: “C’è del buono in questo mondo Padron Frodo…”