A partire dalla pandemia, il mercato del lavoro sta includendo forme strutturali sempre più flessibili ed in tale senso lo smartworking rappresenta il modello pioneristico attualmente più diffuso e costantemente in crescita. Lavorare da remoto piace ai dipendenti, perché lavorano più comodamente da casa e ne guadagnano in autonomia, e piace alle aziende perché grazie alla digitalizzazione di molti processi lavorativi risparmiano sulle spese fisse.
Sembra tutto perfetto, ma a volte (spesso) l’apparenza inganna.
Lavorare da remoto, oltre ai benefici, trascina con sé molti aspetti negativi. Le aziende, privandosi della presenza fisica, accusano un rallentamento nella comunicazione, sgretolamento del clima organizzativo e a volte riduzione della performance lavorativa. Sono i lavoratori però a subirne le conseguenze maggiori: interferenza vita privata e lavoro, lavoro oltre gli orari stabiliti, sovraccarico lavorativo, disponibilità costante (anche in malattia) ed aumento del grado di responsabilità percepito che per alcuni può essere fonte di stress. A questo link potrai trovare un’analisi approfondita sulla tematica dello smartworking nel panorama odierno, che fotografa chiaramente il potenziale, le porosità e le prospettive future di questa nuova modalità di lavoro.
In tal senso, il dibattito socio-politico attuale è vigorosamente impegnato a conciliare diritti e doveri di aziende e lavoratori. Ma nelle misure sociali avanzate si rincorre affannosamente la performance lavorativa, trascurando spesso il tema della salute psicologica dell’individuo.
Infatti, il rischio più insidioso e latente per la persona che lavora in smartworking è il cosiddetto tecnostress, una forma di stress che crea malessere psicofisico a causa di un eccessivo e compulsivo utilizzo della tecnologia. E’ importante sottolineare che il nucleo del malessere origina dal rapporto smodato che facciamo dei dispostivi digitali e dall’ansia che ci crea il suo utilizzo: è relazione con l’oggetto tecnologico ad essere disfunzionale, non la tecnologia di per sé (Ayyagari, R., et al., 2011). Tuttavia, accade spesso che forme di lavoro come lo smartworking, sovraccaricando di lavoro il dipendente e allungando inevitabilmente gli orari lavorativi, finiscono dunque per favorire la presenza di ore ed ore attaccati a dispositivi digitali, facilitando l’insorgenza di ansia legata alle ICT (“Information and Communications Technologies”) (Gaudron, J. P., & Vignoli, E., 2002) ed attitudini compulsive come si ritrovano nel workaholism (Schaufeli, W. B., Taris, T. W., & Bakker, A. B., 2008).
Per capire meglio, possiamo immaginarci una matrioska: all’interno della sfera del lavoro in smartworking si nascondono nebulosamente i pericoli del tecnostress, che da fuori non si vedono ma che nel lungo termine ripercuotono effetti negativi all’interno su tutte le sfere della persona: cognitiva, psicologica, fisica e sociale (E. Albertini & C. Galimberti, 2017). Per un approfondimento su cause ed effetti del tecnostress vi lascio un approfondimento a questo link.
In una società che insegue inesorabilmente il progresso tecnologico, dove il modello di lavoro tradizionale lascia il passo a processi lavorativi sempre più digitalizzati, il tecnostress rappresenta dunque la sfida del secolo per la psicologia. Ad essa il compito di comprendere il reale disvalore presente nella società e predisporre preventivamente il lavoratore allo sviluppo delle risorse necessarie per instaurare un rapporto sano con la tecnologia, senza venir meno agli oneri previsti dal proprio lavoro.