Quando i giochi violenti ci insegnano l’etica: il caso di Metal Gear

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Quando si parla di videogiochi adatti a fasce d’età adulte si è portati a pensare sempre che meno ci si gioca, meglio è per tutti. I loro contenuti violenti o espliciti (che molti videogiochi 18+ possiedono), infatti, potrebbero essere potenzialmente devianti: uccisioni, rapine, aggressioni, oscenità. Tutti elementi che allarmano l’opinione generale, facendo sospettare che potrebbero nuocere all’educazione civica dei giovani utenti e che non abbiano alcun messaggio da trasmettere. Il PEGI serve proprio a garantire ai consumatori l’adeguatezza di un prodotto per ogni fascia età, onde evitare che i più piccoli siano esposti a materiali inappropriati. Nonostante tutto ciò, lo stigma che contraddistingue i videogame che esibiscono il noto 18+ (contenuto adatto ad un pubblico maggiorenne, secondo gli standard PEGI) permane e sembra difficile da debellare: un genitore che esibisce la propria scelta di non comprare videogame ai propri figli per evitare che ne rovinino l’educazione potrebbe apparire come esemplare, nonché dotato di un grande senso di prevenzione pedagogica; alcuni potrebbero addirittura credere che tale scelta sia garanzia per una corretta crescita cognitiva e comportamentale dei figli. Ne siamo proprio sicuri?

I fatti non stanno proprio così. Già diverse volte abbiamo illustrato gli effetti benefici a livello cognitivo e creativo apportati da vari videogame, tutti scientificamente dimostrati. Inoltre, non bisogna dimenticare che sono in molti a cominciare a proporre l’uso di videogiochi nelle didattiche scolastiche e in programmi di apprendimento, ottenendo effetti più che positivi. A questo punto, potreste dirmi: “Sì, ma… i videogiochi con il 18+…? Non dici niente perché è vero quello che si sostiene nel senso comune?”. No. Anzi, potrebbe sorprendervi, ma è proprio da alcuni di questi giochi che, personalmente, ho appreso delle grandi lezioni di etica sulla vita umana. Imparare il rispetto per la vita da un videogioco in cui è richiesto di “uccidere” i propri nemici potrebbe sembrare un paradosso, ma non è così. Per me è stato il caso di una serie in particolare, ovvero quella di Metal Gear.

L’idea di base di Hideo Kojima, padre della saga, fu innovativa: il protagonista, Snake, deve infiltrarsi in una base militare pullulante di soldati nemici senza farsi scoprire, evitando il più possibile gli scontri a fuoco. Affianco ad un gameplay che nel corso degli anni ha potuto godere di diverse migliorie, ci sono sempre stati sia una grande trama che dei grandissimi dialoghi e sequenze video a caratterizzare questo titolo: il tutto ha dato vita ad un gioco non solo spettacolare, ma anche capace di rasentare l’esperienza cinematografica, che ha affrontato tematiche profonde, tra cui la guerra come affare delle nazioni, la sofferenza, l’amicizia e l’amore. Approfondire tutti gli elementi di discussione sollevati da Metal Gear sarebbe un’impresa impossibile in un solo articolo, servirebbe come minimo un saggio. Mi voglio soffermare, tuttavia, su uno solo di questi, che compare in più di un capitolo della saga: la legittimità di uccidere. Più volte il videogiocatore si trova costretto ad immedesimarsi in un personaggio che vive, temporaneamente, una condizione di smarrimento esistenziale davanti al senso di colpa scaturito dagli omicidi commessi; è esemplare a questo proposito l’incontro fra Naked Snake (alias Big Boss) e il boss The Sorrow, in Metal Gear Solid 3: Snake Eater, in cui, in uno stato al limite fra la trance e la morte apparente, ci si trova costretti a camminare lungo le sabbie di un lugubre fiume in cui si incontreranno tutti i personaggi uccisi dall’inizio del gioco fino a quel momento, ascoltando le loro parole cariche di dolore: un momento di empatia con quelle vittime che, probabilmente, tanto ci eravamo gratificati nell’assassinare. Una provocazione che mette in discussione la credenza hollywoodiana che i “cattivi” siano sempre tali e che ucciderli vada sempre bene. Altra dinamica che si può riscontrare nella saga Rising della stessa serie, con protagonista Raiden: in una sessione di gioco, infatti, sarà possibile ascoltare i pensieri dei nemici che si staranno per uccidere, sintonizzandosi con il loro passato e le loro paure, scoprendo delle persone al di là della divisa; l’eroe, in questo caso, metterà in dubbio la sua filosofia che lo accompagnava sul campo di battaglia, secondo la quale l’uccisione di un rivale sarebbe sempre giustificata se finalizzata alla sicurezza mondiale. Non bisogna dimenticarsi, inoltre, del primissimo Metal Gear Solid e del dolore di Meryl dopo la sua prima vittima, o dello sconcerto provato da Snake quando il suo acerrimo rivale lo provocherà riassumendo le motivazioni che lo spingono a fare il soldato dicendogli: “a te piace uccidere, questo è quanto”. Per concludere, non va dimenticata quella scena del quarto capitolo della saga in cui, in un futuro non troppo lontano dominato dal business della guerra e delle armi, si avanza che i soldati vengono preparati alla battaglia attraverso la realtà virtuale, richiamando esplicitamente delle immagini tratte da sparatutto in prima persona. In questo modo, a parere di chi scrive, gli sviluppatori hanno voluto provocare direttamente il videogiocatore, ricordandogli che deve assumere consapevolezza e auto-osservazione nel giocare a certi titoli, e ricordargli che è un suo impegno fare in modo che le azioni virtuali non si trasferiscano nella realtà.

Le tematiche sollevata dalla saga di Metal Gear sono delle lezioni di etica a tutti gli effetti, e non ci si dimentichi che quelle presentate sono soltanto alcune! Questa saga è stata capace di ricordare che i videogame violenti sono sì uno svago, ma che devono comunque essere presi sul serio, e le dinamiche che offrono vanno contestualizzate. La violenza ludica cammina in equilibrio su un filo sottile che divide la realtà dalla fantasia, lo svago dalla politica. Da Metal Gear si potrebbe imparare a rapportarsi con i giochi violenti in maniera ponderata, ma soprattutto a ricordarsi che quanto avviene in una console, deve rimanere nella console.

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