Questo articolo contiene spoiler sulla trama di Red Dead Redemption 2 e The Last of Us Part II
In questo articolo vorrei parlarvi di identificazione nei videogiochi con due protagonisti analizzando titoli di successo come Red Dead Redemption 2 e The Last of Us Part II. Prima di parlare dell’identificazione in due protagonisti però, chiariamo cosa significa identificarsi in un personaggio fittizio. L’identificazione è il grado in cui gli individui amano un personaggio a tal punto da considerarlo come simile a loro, si identificano nelle sue azioni e nel suo aspetto perché vorrebbero essere come lui.
L’identificazione nei videogiochi è fondamentale – forse più accentuata qui che in altri media – proprio perché siamo noi ad avere ampio controllo delle azioni del personaggio. Possiamo influenzare la trama secondo le nostre scelte morali oppure personalizzando l’aspetto nel modo che più ci piace. Ritrovarsi nei panni di un personaggio cambia in maniera sostanziale la percezione di Sé a livello emotivo e caratteriale. Di questo tema ne ha parlato qui Daniele Brussolo.
Cosa succede quando i protagonisti sono due? Cosa succede quando si prende il controllo di un nuovo protagonista? Come ci sentiamo?
Red Dead Redemption 2 è il secondo titolo dedicato all’open-world ambientato nel vecchio West di Rockstar Games. Uscito nel 2018, seguiremo le gesta del gruppo capeggiato dal fuorilegge Dutch Van Der Linde. É un prequel di Red Dead Redemption che segue la storia di John Marston, impegnato proprio nel trovare e sconfiggere una volta per tutte gli ultimi membri della gang.
In Red Dead Redemption 2 seguiremo la gang verso le ultime fasi della sua esistenza; il vecchio West, con l’avvento della Rivoluzione Industriale, sta ormai scomparendo e Dutch e compagni sono un po’ l’ultimo strascico di quello spirito incauto e selvaggio. L’America post-secessione è ormai verso la civilizzazione e l’avanzamento economico-industriale è fiorente. Vestiremo i panni di Arthur Morgan, braccio destro e amico fidato di Dutch, un uomo dalla dubbia moralità ma che, in fondo, nasconde un cuore d’oro.
Rockstar Games ha avuto la capacità di ricreare all’interno del suo gigante open world, un vero e proprio mondo vivente. L’immersività all’interno del Tripla A è qualcosa di assolutamente mai visto prima. Red Dead Redemption 2 da al videogiocatore l’assaggio di una vita autentica di quegli anni, un’antologia completa e fedele alla realtà. Uno dei “difetti” (ma difetti, esattamente, non ne ha) è la sua lentezza contrapposta a fasi di gameplay assolutamente frenetiche. La lentezza sta nella vita di gruppo, nei lunghi viaggi a cavallo, nei rapporti tra i personaggi: una trama slow-paced è sinonimo di rappresentazione del reale.
L’identificazione in Arthur Morgan, il protagonista principale di questo capitolo, è totale, considerando il fatto che è un personaggio che segue le modifiche del tempo: crescono i suoi capelli, la sua barba, può ingrassare o dimagrire, può soffrire il freddo se vestito con abiti leggeri, può sporcarsi cadendo a terra, oltre ad un complesso sistema di scelte morali fondamentali ai fini della trama, come è stato spiegato qui.
Essendo un personaggio fittizio che risponde all’ambiente virtuale, il nostro senso di immersione e identificazione con lui è altissima. É un personaggio tutto sommato piacevole, malgrado facesse parte di una gang di criminali; è un personaggio grigio, che si mescola con le altre personalità all’interno del gruppo, ha un forte senso del dovere e le sue azioni verranno costantemente messe in dubbio verso il finire della sua storia, dopo la terribile diagnosi di tubercolosi. La grave malattia, assolutamente letale per l’epoca, getta Arthur nello sconforto.
Con una sceneggiatura e una fotografia che fanno impallidire anche i kolossal hollywoodiani, la nostra empatia ci permette di toccare con mano le sensazioni di un personaggio verso il fine vita, quali sono i suoi pensieri, che cosa significa redimersi e salvare gli altri. Possiamo scegliere anche di non farlo; una decisione che, appunto, sta a noi. Sebbene Rockstar abbia il coltello dalla parte del manico, veicolando la trama verso un punto specifico, il giocatore ha anche la sua parte nella formazione della storia.
Purtroppo, per Arthur Morgan, il destino è già segnato. La consapevolezza di guidare il personaggio verso gli ultimi giorni della sua vita, con evidenti manifestazioni della sua malattia, ci fa sentire impotenti. L’unica cosa da fare, è lottare verso cosa sembra giusto per noi. Ed è allora che Arthur diventiamo noi e noi siamo lui. Uno scambio di mutuo aiuto, una crescita che va oltre lo schermo e le periferiche. Noi siamo quel personaggio e ci sentiamo smarriti, ed è nostro compito trovare uno scopo prima di lasciare questo mondo.

Arthur dopo aver scoperto la diagnosi
La morte di Arthur sconvolge perché segna un punto di non ritorno. Ci siamo arresi, abbiamo addirittura pianto, ci siamo sentiti quasi senza una linea guida. É un game over diverso, senza possibilità di respawn, senza poter tornare indietro (a meno che non abbiamo conservato un vecchio salvataggio). Rockstar è riuscita ad essere fedele alla realtà anche in questo: bisogna dire addio e lasciare andare.
Quasi a sorpresa, però, il gioco non finisce. Prosegue, qualche anno dopo con John Marston, il personaggio che abbiamo amato e apprezzato in Red Dead Redemption uscito nel 2010.
Sebbene fossimo risollevati a continuare la storia, c’è quella sensazione latente in cui ci fa capire che qualcosa non va. É come se avessimo la sensazione che tutto è diverso, anche l’aspetto dei personaggi (più invecchiati, più maturi). Una parte di noi forse spera di incontrare Arthur, scampato dalla morte per chissà quale motivo ma ogni volta che abbiamo la certezza che sia svanito ci fa stare ancora più male.
Quanto potere c’è nell’identificazione? Quanto affetto ci può stare per un personaggio di fantasia? L’identificazione in un personaggio funziona quando ci assomiglia, quando ci siamo rispecchiati in lui. Il nostro attaccamento alla vita è così forte che, quando pensiamo alla morte, la immaginiamo come qualcosa di veramente lontana. La dipartita di Arthur Morgan invece è un turbinio impetuoso che ci ha travolti malgrado il gioco nella sua lentezza ci ha dato tutto il tempo per metabolizzare cosa succederà e perché. Ma come nella vita reale, speri sempre che la morte non accada mai per nessuno. Lo sentiamo ancora di più quando con John Marston possiamo visitare la tomba di Arthur, una visione poetica, triste, incredibilmente straziante.
Per questo ci sentiamo smarriti quando ci mettiamo nei panni di John. “Sono lui, adesso?”, ci chiediamo. Grazie a John possiamo rivendicare la morte di Arthur in qualche modo e mettere a posto la nostra coscienza, ma non è mai abbastanza. E, come letto in un commento su Youtube, quando Micah dice che “Arthur è morto da tanti anni“, ci sentiamo ancora più tristi.
L’identificazione in John è comunque presente ma in maniera diversa, più blanda (forse perché abbiamo la possibilità di guidarlo solo nell’endgame quando la maggior parte delle attività le abbiamo provate) e forse ancora più triste se si conoscono gli eventi del primo RDR. Ma alla fine è così, l’epopea western di Rockstar è manifesto della vita vera e della sua caducità.

Con John Marston, sulla tomba di Arthur
L’identificazione in un altro protagonista ci risulta a quel punto più difficile, per certi versi dolorosa. Quasi ci “impegniamo” nel farlo e questa difficoltà è dovuta al fatto che ci eravamo ormai abituati a calarci nei panni di qualcun’altro. Toccante è la scena (del tutto opzionale) in cui Arthur confessa alla suora di avere paura, un terrore ormai tangibile che, per noi videogiocatori, si traduce come paura di dover dire addio ad un personaggio così ben delineato, che ci ha accompagnato per ore ed ore di gioco. Non ci resta, quindi, che ingoiare il boccone e ringraziare la software house per essere riuscita a creare un personaggio così vivo nella sua fragilità.
Però in fin dei conti a John Marston ci affezioniamo perché… è John Marston! Dopo aver metabolizzato, dopo aver seguito le sue vicende, possiamo sentirci pronti di accogliere John come il nuovo protagonista di Red Dead Redemption 2, almeno per poco, fino alle tristi vicende che completeranno la storia della gang di Dutch.
Diverso è il discorso in The Last of Us Part II in cui andiamo a metterci nei panni e a identificarci in due protagoniste ai due lati opposti di un continuum. All’inizio reagiamo con rabbia, dissenso: non voglio mettermi nei panni di un personaggio che ha fatto questo!
Non abbiamo fiducia in queste scelte di sceneggiatura, eppure Naughty Dog ci ha permesso – con questo scambio – di non fermarci alle apparenze. Come già scritto nel mio precedente articolo, siamo portati a pensare alle storie di fantasia come scontro tra le forze del bene e del male. I supereroi contro i cattivi di turno, è una prassi a cui noi siamo abituati sin da piccoli; ma lo sforzo narrativo sta proprio nel saper mescolare questi lati imprescindibili degli esseri umani. Non esiste qualcuno di buono o cattivo, proprio come Arthur Morgan.
Abby ed Ellie sono molto più simili di quanto pensassimo: agiscono entrambe a seguito di perdite devastanti per loro, hanno le stesse ragioni ma sbagliano. Noi videogiocatori siamo stati abituati a stare dalla parte del giusto, nel personaggio limpido, con giusta morale, carismatico e positivo. The Last of Us Part II ha gettato via questa certezza, facendoci affezionare ad un personaggio che abbiamo assolutamente disprezzato nelle prime ore di gioco.

Ellie e Abby durante lo scontro finale, alla fine delle loro rispettive storyline
Sia Ellie che Abby vivono in zone d’ombra, hanno sofferto e hanno cercato in tutti i modi di riscattarsi: salvando qualcuno, formando una famiglia. É necessario andare avanti, giocarlo per una seconda volta per soppesare le azioni di entrambe, calarci nei panni avendo bene a mente cosa è successo, seguire i dialoghi, il comportamento verbale e non verbale.
L’identificazione in due protagonisti significa guardare la storia da due punti di vista, familiarizzare con più di un personaggio, entrare in sintonia con caratteri e personalità differenti senza “polarizzarsi” in un unico punto.
Red Dead Redemption 2 e The Last of Us Part II ci hanno insegnato ad amare personaggi con molte zone d’ombra, sbagliati, malati, verso la redenzione. Addirittura ci mancano, oppure ci allontaniamo dalle loro azioni, contestandoli. Sono credibili ed umani, per un certo punto di vista, dai quali impariamo ad essere sicuramente persone migliori.