Nel mio precedente articolo avevo provato a spiegare in che modo e perché ci relazioniamo con personaggi virtuali come se fossero reali. I meccanismi descritti sono stati naturalmente sfruttati dall’industria videoludica, ma il loro impatto sull’esperienza di gioco è spesso sottovalutato.
L’esempio più evidente (0 limitante) è quello dei “pet simulator” che io preferirei chiamare “simulatori di interazione”: quanti Nintendo DS vennero acquistati all’epoca esclusivamente per Nintendogs, gioco che permetteva di prendersi cura di cuccioli elettronici? Rispetto ai classici Tamagotchi e affini , incentrati sulle incombenze del sostentamento, la combinazione di grafica e interfaccia stilo consentiva di focalizzarsi più sul piacere di giocare con l’animale virtuale: una modalità riprodotta con successo anni dopo anche nella blasonata serie Pokémon.
Questo ci porta nell’ambito degli RPG: il coinvolgimento nella storia e nel mondo di gioco traggono beneficio dalla sensibilità alle interazioni con il giocatore, che sente così di star scrivendo la “sua” avventura. Ecco dunque personaggi non giocanti che ci ricordano e reagiscono in base al nostro operato, ma anche comprimari con cui possiamo instaurare relazioni. Ben prima di “The Witcher” la serie di Fire Emblem, con gusto decisamente Giapponese e a volte lontano dalla nostra sensibilità, permette da tempo al giocatore di far interagire fra loro i vari personaggi creando anche finali romantici. Fa riflettere come la meccanica della “skinship” mediante stilo, tanto carina e simpatica se applicata ai Pokèmon, sia stata quantomeno controversa una volta applicata a personaggi umani
Si passa quindi dal “giocare ALLE relazioni” al “giocare CON le relazioni”, approccio il cui massimo esempio è la serie di The Sims. Una parte consistente del suo successo è dovuta al poter creare e sviluppare intricati legami fra i personaggi: amori, parentele, amicizie e rivalità in un teatro personale del giocatore. Questo la dice lunga su quanto poter sperimentare in questo ambito sia attraente per noi “animali sociali”, mettendo anche all’opera meccanismi compensatori o sadici: i nostri sim hanno carriere brillanti e vivono in ville da sogno, oppure muoiono annegati nelle piscine mentre ci caliamo nei panni di divinità crudeli.
Un particolare medium a cavallo fra il videoludico e la narrativa che si è rivelato adatto a esplorare il mondo dei rapporti umani è quello delle visual novel. Si tratta generalmente di storie in forma scritta accompagnate da immagini, per lo più sfondi e rappresentazioni dei personaggi, dove il giocatore/lettore può fare alcune scelte influenzando così il corso degli eventi. Non vi è quindi un gameplay in senso stretto, mentre la responsabilità rispetto alle scelte viene enfatizzata. Interessante anche se non di grande successo in questo senso è la serie “Rockett’s World” che negli anni ‘90 si proponeva di promuovere le abilità sociali delle bambine attraverso la scelta di comportamenti adeguati, oggi avremmo molto da ridire per lo meno su quanto questa impostazione fosse poco flessibile.
La relazione in sè può essere la fonte di gratificazione del “gioco”: in giappone molti titoli di questo settore hanno trame basate su aspetti romantici e/o erotici, con eroine (o avvenenti ragazzi negli “otome game” rivolti al pubblico femminile) volte a suscitare un investimento anche affettivo: le eventuali scene piccanti possono arrivare dopo ore ed ore di lettura e solo dopo aver fatto le scelte giuste, non esattamente quello che ci si aspetterebbe da un “gioco pornografico”.
E se le macchine potessero offrirci una esperienza relazionale nel mondo reale? Affascinante o inquietante che sia, ecco Gatebox, un sistema di controllo domestico con avatar in pieno stile anime che non vi fa sentire soli quando tornate a casa. Un surrogato che comunque non può offrire una vera reciprocità, alla base della sfida e del valore del legame.